di: storieabruzzesi.it blog d'informazione Cronista di giorno, musicista (rock) di notte Musicista rock, esperto di basket, giornalista, interprete, traduttore. La personalità di Paolo Marini è alquanto eclettica. Chi scrive lo ha conosciuto da musicista, condividendo con lui uno dei suoi primi progetti (i “Blank”, riemersi di recente sulla piattaforma Teramorock.com) a metà degli anni Novanta. Ora questo collega dai mille interessi, che fatica a trovare del tempo libero nonostante nutra la sola ambizione di coltivare insieme tutte le sue passioni, sta per tagliare il traguardo dei venti anni di carriera musicale. Una passione coltivata silenziosamente, ma che gli è valsa alcuni significativi riconoscimenti, a livello nazionale, da riviste musicali specializzate. Con lui parliamo di tutto, partendo naturalmente dalla musica. Qual è stata la scintilla da cui è partito tutto e chi (band, persona o altro) ringrazi per questo? «Posto che carriera mi sembra un termine impegnativo nel mio caso, posso dire che la scintilla è stata innescata dalla voglia di condividere urgenze e piaceri con amici, e da una naturale esigenza espressiva». Come definiresti la tua musica? «Un modo diretto per entrare in contatto con altre sensibilità». Si tratta comunque di un tentativo di evadere dalla realtà oppure di interpretarla e quindi, in qualche maniera, di esorcizzarla? «Più che di evasione parlerei di sopravvivenza sul campo. Pur avendo viaggiato e ricevuto la spinta ad inserirmi stabilmente in contesti culturali differenti, vicende personali mi hanno portato a scegliere di rimanere a Teramo. La musica resta una componente fondamentale della mia vita, ma ho i piedi ben piantati a terra». Delawater o Amelie Tritesse? Quale dei due progetti musicali riflette meglio la tua personalità? «Meglio o peggio, in entrambi i contesti vengono fuori amicizia, ricerca sonora e curiosità. Questi sono sempre stati elementi basilari nel mio percorso musicale. Con Amelie Tritesse si sperimenta più con le parole, grazie alle storie scritte da Manuel Graziani (gli altri membri della band sono Stefano e Giustino Di Gregorio, e Matteo Borgognoni), mentre con i Delawater (ne fanno parte anche Pierluigi Filipponi, Andrea Marramà, Stefano Di Gregorio e Serafino Bucciarelli) si viaggia su coordinate sonore più melodiche e psichedeliche, come hanno sottolineato molti recensori dell’ultimo disco “Open book at page eleven”». Le cinque soddisfazioni più belle ricevute in campo musicale. «In fase random, direi: intervistare a Bologna il chitarrista degli Slint, David Pajo; chiacchierare con Mark Lanegan con indosso una maglietta dei Pixies; sentire più volte su RadioRai3 le canzoni di Iver and the driver, progetto “folk-tronico” che ho creato con Giustino Di Gregorio; suonare sullo stesso palco un po’ prima di Thurston Moore dei Sonic Youth; trovare gli stimoli giusti per evolvermi musicalmente ed evitare di suonare sempre la stessa canzone». Non male anche essere riusciti ad ottenere riconoscimenti in campo nazionale da parte ad esempio delle riviste di settore. Resta il problema di come finanziare questa passione… «Ci si finanzia suonando e valutando attentamente se è più urgente investire in un nuovo effetto per chitarra, un nuovo portatile o un nuovo disco. Poi, il tempo aiuta a svuotarsi di ambizioni fuori contesto. In Italia campare con una proposta musicale non convenzionale diventa molto improbabile. Quindi, per rispondere alla tua domanda: razionalizzo!». Ogni città – e parliamo ovviamente di Italia – ha il suo circuito di band giovanili locali che, però, restano quasi sempre “undergound” rispetto alla manifestazioni culturali dominanti. Eppure il fenomeno richiama l’attenzione di centinaia, a volte di migliaia di ragazzi. Ritieni che per la musica rock e le sue derivazioni ci sia un pregiudizio o un atteggiamento volutamente discriminatorio da parte degli amministratori locali (tipo tenere a bada i violenti)? «Sarò tra virgolette sorpassato ma preferisco che l’underground resti tale, un mondo da scoprire, da andarsi a cercare. Il valore di un evento si misura in pubblico se lavori come politico o sondaggista, io non ne faccio invece un discorso numerico ma di contesto. Possono starci dieci o mille persone davanti a una band che suona dal vivo, ma se stai vivendo un’esperienza precostituita o genuina lo definisce il dove ti trovi in quel preciso momento. Sono cresciuto con queste convinzioni e ancora le considero credibili». Musicista ma anche giornalista: dalle cronache musicali e del basket nazionale alla direzione di un sito internet locale: rifaresti tutto? «Diciamo che mi attira più cercare di fare meglio in futuro che rifare un po’ meglio il passato (risate)». Teramo nell’Olimpo del basket nazionale dal 2003 al 2012. Quasi dieci anni di permanenza in serie A hanno lasciato solo debiti a Teramo o qualcosa di più? «Questo periodo mi ha dato e tolto un lavoro, mi ha lasciato una condivisa amarezza e la sensazione che a risultati troppo grandi da sostenere spesso corrispondono scelte troppo grandi da sostenere». Qual è stato, secondo te (da osservatore esterno), l’errore più grande che ha portato al fallimento della società? «Farsi trascinare dalle ambizioni sempre e comunque, a fronte di un sistema che sembra indurre a ritenere questo approccio percorribile». Dirigi un sito di informazione locale. Qual è secondo te il limite del giornalismo online locale? E quale il suo futuro? «Il limite del giornalismo online locale è che nella maggior parte dei casi non crea reddito sufficiente, e inoltre non vedo grandi investimenti nel settore. Ci sono pochissimi che stanno bene e tantissimi che si sbattono per sopravvivere. La situazione va peggiorando, e oltre a deprimere costantemente le vite di chi vorrebbe semplicemente lavorare in maniera dignitosa, la qualità del servizio tende a scendere. Futuro? Al momento, grigio». Cosa rimprovereresti alla tua città se dovessi giudicarla da artista? «Esprimo la mia sensibilità tramite la musica ma sentirmi chiamare artista mi suona un po’ eccessivo. Io non provo a campare della mia arte, non vivo dopotutto in un contesto che mi permetterebbe di farlo. I rimproveri sono conseguenza delle aspettative e io ne ripongo poche ad esempio nelle istituzioni. Lo dico a ragion veduta perché per anni sono stato attivo nell’organizzare iniziative. In zona esistono e resistono comunque valide micro realtà, e anche se il lavoro ha ridotto il tempo a disposizione per le passioni, quando posso cerco contesti interessanti. Per fortuna ci sono teramani che mi trasmettono ancora entusiasmi condivisibili». CHI È Nato il 6 agosto 1972 a Teramo, si è laureato in Lingue e Letterature Straniere all’Università di L’Aquila nel 2000 e ha passato del tempo in Inghilterra a perfezionare “sul campo” l’inglese. Tornato in città, ha intrapreso l’attività di giornalista occupandosi di sport, cronaca locale e altro per il quotidiano “Il Messaggero” e maturando così i requisiti per l’iscrizione all’Ordine dei giornalisti. Ha affiancato diverse attività lavorative al giornalismo, sia a livello locale (“Teramo Triathlon Team”, “Cineforum Teramo”, Università di Teramo, Provincia di Teramo) sia a livello nazionale (la rivista di basket “Dream Team”, per la quale ha scritto report da New York City). Da oltre tre anni è direttore responsabile del primo quotidiano on-line nato in Abruzzo, TeramoNews.com, e continua ad ampliare il proprio coinvolgimento nel mondo della scrittura per il web con altre collaborazioni. Ha parlato per anni di musica sul magazine “Mood” e condotto programmi per RadioFrequenza. La casa editrice “Demian” gli ha affidato anni fa il compito di coordinare la raccolta di racconti scritti da autrici teramane “TestiMonia”. Da molto tempo scrive canzoni e realizza dischi con vari progetti musicali (Blank, Matt Murdock, Orange Indie Crowd, Famous Players, Iver and the driver, Amelie Tritesse, Delawater, The dead man singing). Ha una passione smisurata per il basket NCAA (il massimo livello del basket collegiale negli Stati Uniti d’America) e gioca nel campionato CSI di pallacanestro con la “Teramo a Spicchi”. Nicola Catenaro Intervista pubblicata su “La Città quotidiano” del 23 gennaio 2014 Fai clic qui per effettuare modifiche.
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di Nicola Catenaro «La musica, la mia favolosa ossessione» Luca D’Alberto è un artista sorprendente. La sorpresa sta nel trovarlo sempre al fianco di grandi personaggi in vari campi, dal teatro alla danza o alla musica rock, senza vederne modificati negli anni né il carattere (fondamentalmente timido) né l’approccio alle cose che gli accadono intorno (allegro e spensierato, come sempre). L’espressione e i modi da eterno fanciullo, però, tradiscono le doti e il talento di un musicista colto, sensibile e raffinato. Ecco la sua (sorprendente) intervista-ritratto. Luca D’Alberto, quando e come ha iniziato a suonare e perché? «Ho iniziato da piccolissimo perché nella mia famiglia ci sono due meravigliose musiciste: mia madre e mia sorella. Ascoltandole suonare, chiesi di iniziare lo studio di uno strumento e scelsi la viola e il violino. Gli strumenti ad arco mi hanno sempre appassionato. Mi sono avvicinato anche alla Violectra 6 corde». A chi deve un grazie per la sua formazione? «Sicuramente a mia madre e mio padre». Quali sono i suoi principali riferimenti musicali? «La curiosità è il mio principale riferimento». Il musicista con cui ha lavorato che ammira di più? «Uno tra i tanti è Mike Garson, compositore e pianista di David Bowie, Smashing Pumpkins, NIN. Nonostante le sue esperienze, ha una grande capacità di ascolto e una grande umanità». Con quale musicista del passato vorrebbe aver lavorato? «Chopin». Il suo sogno già realizzato? «Essere entrato nella grande famiglia del Tanztheater “Pina Bausch”». Il suo sogno ancora da realizzare? «Non si può dire, magari porta male… ». La musica: la sua pace o la sua ossessione? «Mai domanda fu più giusta. Così come ti dà tanto: emozioni indescrivibili ed esperienze uniche, la musica toglie molto. Per inseguirla devi metterla al primo posto e fare molte rinunce». Musica classica o musica leggera? Quale sceglie? «Ogni musica fatta con senso del gusto, senza discriminazioni di sorta. La mia grande capacità è quella di ascoltare senza pormi limiti». Musica o poesia? La prima comprende l’altra o la seconda comprende la prima? «L’una dovrebbe perdersi nell’altra e molto dipende dalla capacità del poeta e del musicista di amalgamare le due arti. Sto collaborando con Rick Holland, poeta scozzese e collaboratore di Brian Eno, con il quale ho trovato corrispondenza di respiro. Inoltre Rick è davvero un esempio per quanto riguarda la musicalità messa in parole. Voglio dire che una sua poesia è già musica». Ci sono persone musicali e altre meno musicali? «Come per qualsiasi arte ci sono persone di talento e altre meno al di là del percorso di studio. Molti artisti autodidatti hanno fatto la storia della musica come e a volte più di altri che hanno seguito studi accademici. Questo perché l’istinto e il senso del gusto innato sono più forti di qualsiasi percorso». Che rapporto vede tra arte e politica? «Credo che ogni artista faccia politica nel senso di un impegno nei confronti della Bellezza. Anche chi non sceglie la via palesemente politica opera nel sociale, provando a comunicare sensibilità per cose apparentemente futili o lontane dalla vita pratica. In fondo l’attenzione perla Bellezzadovrebbe essere il punto di partenza e di arrivo di ogni essere umano. Il discorso ovviamente sarebbe molto più lungo e ricco di sfumature».
Che rapporto ha con Teramo e perché dice che è legato alla sua terra da connessioni magiche? «Con Teramo ho un bel rapporto, è anche nella mia città che ho composto la maggior parte delle mie musiche che poi hanno risuonato nei teatri di tutta Italia e non solo. Penso alle musiche composte tra Teramo, Roma ela Germania: il “Così è se vi pare” e il “Re Lear” di e con Michele Placido, lo spettacolo teatrale dedicato a Puccini di Albertazzi, le mie composizioni per il Tanztheater “Pina Bausch” e tanto altro. La magia della mia terra nasce dal forte rapporto con la natura: la montagna, il mare così a poca distanza. A volte, percorrendola A24, mi chiedo quanto quello che da bambino consideravo scontato alla vista in realtà è speciale ed ha contribuito alla mia crescita artistica. Forse è proprio da lì che nasce la mia curiosità, in questa terra dove gli elementi naturali si fondono e si integrano». Vive a Roma per scelta o per necessità? «In realtà vivo a Roma perché condivido molte amicizie e contatti professionali, ma spesso sono fuori Italia per altri impegni artistici. Wuppertal, la città della Germania del Nord scelta da Pina Bausch per le sue creazioni, mi fa pensare molto a Teramo. A Pina hanno proposto città più blasonate come Berlino o New York ma è rimasta in questo piccolo centro fino alla fine, perché lì aveva maggiore ispirazione e tranquillità. A volte le piccole città, che apparentemente limitano o escludono, proteggono». Come cambierebbe la sua città? «Vorrei ci fosse maggiore carisma collaborativo e supporto, spesso ci si sente teramani e o italiani quando viviamo all’estero e sarebbe auspicabile alimentare consapevolezza e nuove sinergie in loco. È un discorso valido non solo per Teramo ma per tutta l’Italia». CHI È Compositore, Violectra 6 corde violista, violinista diplomato con il massimo dei voti, la lode e la menzione ministeriale, è Violectra Official Player al fianco di importanti artisti internazionali come Jean Luc Ponty e Nigel Kennedy. Nel mondo della musica classica, quale vincitore di selezione internazionale, ha collaborato con Bruno Giuranna, Simonide Braconi, Antonio Anselmi, Reiner Schmidt e con l’orchestra Cherubini diretta dal maestro Riccardo Muti. Collabora con Zentropa (casa di produzione di Lars Von Trier), Michele Placido, Giorgio Albertazzi, Rick Holland (poeta di fama internazionale e stretto collaboratore di Brian Eno), Mike Garson (pianista di David Bowie), Astrid Young (Neil Young), Deep Purple, Xabier Iriondo (Afterhours), Ditta Miranda e Damiano Ottavio Bigi (Tanztheater “Pina Bausch”), è ospite degli eventi organizzati dal Tanztheater “Pina Bausch” all’interno del Festival “Pina40″. Ora sta lavorando al suo primo progetto solista, “ESTASI”, con numerosi ospiti internazionali. Nicola Catenaro - storie abruzzesi Fai clic qui per effettuare modifiche. di NICOLA CATENARO Storia di un batterista che diventò deejay del mondo storieabruzzesi.it, blog d'informazione Abruzzese doc, ma non sembra affatto. L’idea che ti fai quando lo incontri è che sia un indiano metropolitano allevato per sbaglio a Teramo. Un po’ hippy, un po’ filosofo. Ma sempre incredibilmente pieno di impegni, tra Ibiza (la sua nuova residenza artistica) alle coste del Sudamerica o del Giappone. In realtà Stefano De Angelis, cittadino del mondo, è semplicemente un artista molto colto oltre che un raffinato deejay. Lo intervistiamo alla vigilia della sua esibizione con Elisa Di Eusanio per lo spettacolo che l’attrice ha ideato e organizzato, all’interno del teatro romano di Interamnia, in memoria della madre, l’indimenticata Mariella Converti. Una nuova occasione, per De Angelis, di pizzicare in profondità le corde sensibili degli spettatori e far vibrare nell’aria musica potente e suggestiva. Stefano De Angelis (foto di Antonio Di Sabatino) Stefano De Angelis, perché ha lasciato Roma e ha scelto Ibiza per esprimersi? «Partirei dal mio rapporto con Roma, una realtà che mi è molto cara. Una delle città più belle del mondo e sicuramente, dal punto di vista artistico, una culla che ti permette di trattare certi temi quando sei sincronizzato con il Paese in cui vivi». Quanto tempo ha vissuto a Roma? «Sette anni. A Roma, dove sono approdato dopo essere stato all’estero, a Londra, per cinque anni, avevo un’etichetta (la CiniK Records, ndr) insieme ad Enrico Melozzi ed ero molto collegato con i problemi dell’Italia, del suo quotidiano. Facevo molte cose per il teatro Valle, mi occupavo in particolare della parte sociale, e andavo a dormire chiedendomi se avessi o meno utilizzato la mia giornata per far riflettere oltre che per far divertire. Una scena, quella in cui vivevo a Roma, che potremmo definire, tra virgolette, underground. Dall’altro lato, vivevo comunque il limite di portare avanti un progetto musicale sostanzialmente mainstream». E poi? «E poi è accaduto che la scena di Ibiza ha cominciato a spingere molto di più e ad offrirmi possibilità infinite dal punto di vista artistico. Già frequentavo l’isola da un po’ ma non avevo mai ragionato sull’opportunità concreta di fare musica così minimale com’è la musica elettronica». Come sta andando l’esperienza nelle isole Baleari? «Molto bene. Ibiza è come una matrice, una porta che ti connette a un circuito e ti trascina via. La sensazione non è quella di trovarsi nel sud della Spagna, ma di trovarsi in un posto in cui transitano tante persone ed etnie e situazioni che comunque rimangono collegate tra di loro». Ha iniziato facendo cosa ad Ibiza? «Ho iniziato nello studio degli Etnica, una band di musica trance (composta da artisti italiani, ndr) molto famosa negli anni Novanta e molto nota soprattutto in Israele e in Russia. Qui, quando si esibiscono, lo fanno negli stadi. Da noi sono meno conosciuti. Per anni hanno organizzato festival musicali all’aperto nel Sudafrica, in Brasile e in posti tropicali. Con loro, in particolare con Max Lanfranconi, un personaggio molto carismatico, una sorta di Claudio Cecchetto della musica elettronica, ho avviato una collaborazione importante nell’ambito della musica techno. Un progetto sperimentale confluito nei Technica che, nelle esibizioni dal vivo, siamo sostanzialmente io e Max». Qual è il vostro obiettivo? «Creare una scena nuova, portare musica house e techno in posti abituati alla musica trance: Israele, Sudafrica, Brasile, Marocco, Giappone». La gente apprezza di più la sua musica a Ibiza? «Non parlerei di musica fatta al di fuori dell’Italia. Parlerei invece del fatto che esiste gente che va all’estero per ballare e partecipare a feste, ritrovi che io chiamo in modo indefinito international party people e che è difficile collocare in luoghi precisi. La mia musica funziona molto in questi spazi grandi e in questi ampi contesti, così almeno mi dicono. Certo, se penso all’Italia ricordo di essere stato un personaggio molto enzimatico, un personaggio che tendeva a corrodere l’ambiente in cui si trovava molto presto. Il che mi fa pensare che forse in Italia non ero capito». Come è diventato musicista o, se preferisce, artista? «Dopo anni di tentativi di autodefinizione, ho trovato finalmente questa parola che mi contiene. Direi che ho dovuto fare l’artista perché ho provato a fare altre cose e non è che mi interessassero molto. L’altra, quella artistica, è invece sempre andata come un treno. Ho iniziato a suonare quando ero piccolo e poi con la mia prima band, Il Komplesso di Edipo, costituita da Enrico Melozzi, Matteo De Virgiliis e Francesco Franchi oltre che dal sottoscritto. Abbiamo fatto grandi cose qui in zona». Deve un grazie a qualcuno per la sua formazione? «Sicuramente alla mia famiglia per la stabilità e la fiducia che mi hanno offerto in maniera incondizionata. E poi agli amici, a partire da Enrico Melozzi, con i quali ho avviato collaborazioni che sono diventate veri e propri matrimoni artistici. Nel nostro campo, quello dei deejays, il saper collaborare è una cosa fondamentale. A me riesce abbastanza facile, non avendo un ego preminente né troppo remissivo». Quali sono i suoi artisti di riferimento? Quelli con cui è cresciuto? «Sono nato come batterista rock e sono cresciuto con le magliette degli Iron Maiden e andando a pogare ai concerti dei Metallica. Poi ovviamente, grazie anche alla musica elettronica, ho ampliato i miei confini. Ma sono rimaste in me delle sonorità scure, le dissonanze mi interessano sempre di più delle assonanze». Le cinque canzoni irrinunciabili. «Fatta eccezione per la musica classica e per la trance, sicuramente ‘Nothing else matters’ dei Metallica, ‘Purple Rain’ di Prince, ‘Chocolate Jesus’ di Tom Waits, ‘Smells like teen spirit’ dei Nirvana, alcuni brani dell’album ‘London Acid City” di Chris Liberator». Sul palco si sente più artista o veicolo di emozioni? «Prima avevo un rapporto con il pubblico schermato, un rapporto che terminava alla fine del palco. Ora, quando mi esibisco come deejay, funziono più come un sacerdote in grado di operare uno scambio con le persone presenti. Avverto una tensione mistica davvero notevole». Di cosa si sta occupando in questo momento? «Stiamo lanciando una nuova etichetta, che si chiama SFS Music, alla quale stanno lavorando molti importanti deejays. Questo è il progetto su cui saremo impegnati nei prossimi anni». È difficile coniugare arte e vita? «È difficile coniugare vita e vita, direi… L’arte è qualcosa che faccio perché sento delle cose forti. Sono quelle che voglio seguire. È difficile guadagnare soldi con l’arte, questo sì, è difficile stare seduti 36 ore davanti a uno schermo e tirare fuori una traccia che, forse, dopo alcuni mesi, genererà la data di un’esibizione in una qualche località…». Come immagina il suo futuro? «Dietro la consolle, sicuramente». Chi è: Stefano “66K” De Angelis è nato a Teramo nel 1979. Dj e batterista fin dall’adolescenza, De Angelis ha iniziato la sua carriera come membro della band funky “Komplesso di Edipo”. Si è laureato in Comunicazione & Media a Londra, dove ha lavorato per MTV Networks Europe e ha iniziato ad esibirsi nei rave party della scena underground con il nome di 66K. Nel 2004 fonda insieme ad Enrico Melozzi la band “progetto LISMA”, realizzando colonne sonore per il cinema (Warner Chappell, 57 ° Festival di Berlino, 4 ° Festival di Roma) televisione (RAI), spettacoli teatrali (Globe Theatre, Auditorium Parco della Musica), siti web (Dolce & Gabbana) e come autore e regista ha scritto e realizzato cinque opere (Lisma vive, Appartamenti, Io sono nero, La città, Rosso 66) con la sua etichetta CiniK Records. La sua musica è fortemente teatrale e concettuale. storieabruzzesi.it, blog d'informazione Intervista pubblicata su “La Città” del 4 luglio 2013 "Nicoletta Dale, una voce tra funky e blues", di Nicola Catenaro-Storieabruzzesi.it Mediaset le offrì, a soli 23 anni, il palcoscenico di una delle trasmissioni di punta della rete. Merito della sua voce, che ricorda quelle di grandi interpreti del funky o del blues. Voce calda, estensione da brivido e tanto ritmo. Ma Nicoletta Dale non è solo una cantante di talento. È una persona solare innamorata della sua città, Teramo, dove il nonno Nino (che oggi non c’è più) e il padre Gianni hanno dato un contributo importante alla storia della musica. E dove Ivan Graziani, stretto amico della famiglia Dale, la cullava da piccola. Figlia d’arte, sì, ma con progetti tutti suoi. Il primo è stato quello didattico-musicale avviato con l’associazione Faremusika. Il secondo è nato da poco ed è il centro polifunzionale Arts Factory, di cui Faremusika, insieme ad altre realtà, è il cuore pulsante. Quanti anni aveva quando partecipò per la prima volta al programma “Sarabanda” di Enrico Papi su Italia Uno? «Avevo 23 anni. Un’esperienza nata per caso. Feci un provino, non speravo di farcela e invece andò bene. A selezionarmi furono musicisti dell’entourage di Demo Morselli. Mi chiesero di interpretare un pezzo di Marina Rei, ‘Primavera’, e quella fu la prima canzone che cantai in trasmissione una settimana dopo. L’intesa con il pianista che mi accompagnava nel provino, appassionato come me di funky, fece il resto. Una cosa nata quasi per scherzo si trasformò in un ingaggio durato più di quattro anni. Un’esperienza che mi ha arricchito molto». Quando ha iniziato a cantare? «Le mie esperienze professionali come cantante solista hanno visto la luce presto, a otto anni, con l’orchestra di papà e in studio di registrazione. La mia voce è stata usata per molti spot pubblicitari che negli anni Ottanta mio padre produceva. Poi sono arrivati I Sosta Vietata, la prima opportunità nella quale acquisire una mia identità musicale. Non ero più la figlia di Gianni o la nipote di Nino, ero diventata Nicoletta Dale. Come nacquero i Sosta Vietata? «Nacquero sulla scia di un progetto di mio padre che, in quel periodo, stava mettendo in piedi un’orchestra fatta solo di giovani. Alcuni di loro diventarono miei amici e decidemmo di fondare una band che suonasse nei locali anche d’inverno. Sono trascorsi diciassette anni e siamo ancora fortemente legati. Una bella storia». Ricordi particolari di quegli inizi? «Sì. La nostra terza serata in assoluto. La facemmo al Tabacchi Jazz, a Silvi Marina. Suonammo per quasi quattro ore. Un successo inaspettato che ha disegnato il nostro percorso». La sua formazione, invece, qual è stata? «Un po’ di Conservatorio, l’Università della musica a Roma, Music Academy a Bologna e poi le lezioni con Elisa Turlà che, con il sistema Voicecraft (Estill Voice Training System, ndr) di Jo Estill, ha rivoluzionato il mio modo di cantare. Oggi, nelle mie lezioni, utilizzo il metodo Voicecraft Evts con figure obbligatorie, un sistema innovativo di insegnamento vocale grazie al quale si possono usare indipendentemente le parti anatomiche del nostro strumento». La musica, nella sua vita, è una sorta di missione o cosa? «Oggi posso dire che, con tutta la passione di cui sono capace, dedico la mia vita alla musica in ogni sua manifestazione, dal palcoscenico alla didattica e alla produzione di spettacoli, cercando di creare opportunità espressive per i giovani talenti del territorio». Che ricordi conserva di suo nonno, Nino Dale? «Mio nonno ha creduto in me e nelle mie capacita sin da bambina stimolandomi costantemente. Anche se, da ribelle quale ero, ho sempre cercato di contraddirlo, oggi sono consapevole di quanto mi ha aiutata e formata». È cresciuta con Ivan Graziani che, spesso, era a casa sua. «Lui era l’idea dell’idolo. Un idolo che ho avuto la fortuna di avere dentro casa. Ero troppo piccola per discutere con lui di musica ma lo ascoltavo incantata mentre parlava con mio padre di tutti i suoi nuovi progetti. Ho amato la sua musica talmente tanto che ho sentito la necessità di dedicargli un musical dal titolo Tatì che presto riproporremo visto il grande successo ottenuto in occasione dell’inaugurazione di Arts Factory». Perché ha fondato l’associazione Faremusika? «È stata la naturale evoluzione dei Sosta Vietata. In origine una sala prove con annessa una piccola aula per le lezioni che io e il chitarrista, Gianluca D’Angelo, iniziammo a tenere. Poi furono necessari spazi maggiori e forza lavoro, quindi anche gli altri componenti della band, Flavio Pistilli, Gianfranco Bassino e Marco Manente, vennero coinvolti attivamente arricchendo il progetto. Oggi non potrei fare a meno di nessuno di loro. La grandezza di Faremusika sta nel creare opportunità di incontro, di scambi e di idee. La costante crescita delle attività organizzate dall’associazione ha incuriosito ed avvicinato molti giovani ed alcuni di loro hanno deciso di creare Arts Factory. Amo guardare come Martina, Alessio e Marcos lavorano alla crescita di un progetto impegnativo come questo e sono orgogliosa di aver in qualche modo influenzato l’intraprendenza di questi giovani e di sostenerlo grazie al fatto che Faremusika è stata la prima associazione a decidere di spostare la propria sede all’interno di questo contenitore culturale». Il suo rapporto con Teramo qual è? «Solo dopo l’esperienza con Mediaset, che mi aveva obbligato a vivere a Roma, ho capito quanto mi mancava la mia città. Certo, a Roma avevo tanti stimoli e tante occasioni in più, ma ho qui la mia famiglia e la possibilità di esprimermi liberamente condividendo la mia passione con le persone a me più care. La sola cosa che non mi piace è che, a volte, una parte di Teramo reagisce in maniera strana ai cambiamenti e alle novità. Nel caso di Faremusika, per esempio, non capisco il pregiudizio di chi, forse non conoscendo bene la nostra realtà, si chiede cosa mai ci siamo messi in testa di fare. La percepisco come una cattiveria, banale se vuole, che non dovrebbe appartenere al modo di essere dei teramani». Chi è:
Nicoletta, figlia e nipote d’arte, già a otto anni intraprende l’attività artistica lavorando al fianco del papà Gianni e del nonno Nino, musicista e scopritore di talenti. Intraprende lo studio del pianoforte e si esibisce con uno spettacolo studiato appositamente per lei che la vede impegnata nel canto e nella danza in giro per l’Italia. Giovanissima, partecipa alle selezioni per San Remo entrando nella rosa dei finalisti. Fonda i Sosta Vietata, band storica con cui, tra le altre cose, ha accompagnato artisti del calibro di Goran Kuzminac, Bobby Solo, Grazia Di Michele, Fabio Concato, Laura Bono e Franz Di Cioccio (batterista cantante della PFM). Perfeziona lo studio del canto, già avviato in conservatorio, iscrivendosi all’Università della musica. Trasferitasi a Roma, firma un contratto con Mediaset come cantante solista nel cast della trasmissione di Enrico Papi “Sarabanda”. Tornata a Teramo, fonda Faremusika che, oggi, ha sede presso Arts Factory, il nuovo centro polifunzionale delle arti situato sul lungofiume Vezzola. Intervista pubblicata su “La Città” del 18 aprile 2012 Pubblicato senza modifiche da: storieabruzzesi.it blog d'informazione.
"Una tranquilla vita da rocker tra punk e realtà" Tito Fabio Macozzi, 40 anni, teramano, rocker da sempre, da quando aveva tredici anni e iniziò a suonare la chitarra. A sedici mise in piedi la prima band, i “Born Losers” (ovvero i Nati perdenti), e offrì a uno sparuto ed emozionato pubblico un’inedita esperienza di concerto in perfetto stile garage-punk psichedelico. A Teramo erano altri tempi e, soprattutto, altri luoghi. Il concerto si svolse allo Shakidu, lo storico locale di viale Bovio trasformato da qualche anno (andare a vedere per credere) in un garage. «Fu un’eccezione – racconta oggi Tito – visto che all’epoca in città non c’erano locali». Erano altri tempi… «Decisamente. Si provava per mesi, quasi ogni giorno, e poi si suonava in occasione di feste che venivano organizzate ogni due o tre mesi in luoghi improvvisati. E l’affluenza era alta. Ricordo un Beatles party alla Fratellanza Artigiana particolarmente affollato. Ricordo altri personaggi e altre facce: Gigi De Federicis della Def Killer Band, Luciano Di Matteo, Roberto Trizzino…. Alcuni suonano ancora oggi. Ma non c’erano molti gruppi né si può dire che vi fosse una scena rock teramana». A distanza di anni, potresti dire oggi che il rock è la tua professione? «Posso risponderti dicendo che cerco di farlo in maniera professionale. Mi occupo anche di organizzazione eventi e di concerti. Soltanto di musica suonata, in Italia, è molto difficile vivere. Così, per farlo, cerco di vivere la musica a 360 gradi». Come è nato il tuo lavoro di organizzatore di concerti? «Per caso, direi. All’inizio gestivo insieme ai miei amici alcuni locali ed organizzavo concerti per band che a Teramo non avevano mai suonato. Con questi gruppi ci accordavamo poi per uno scambio di date, cosa che ci consentiva di suonare anche a Roma o Milano. La cosa funzionava e così continuai». Con il tuo storico gruppo, i “Brainsuckers” (cioè i “Succhiacervelli”), hai registrato a partire dal 1997 ben otto dischi. Cosa ti ha offerto questa esperienza? «La possibilità di essere conosciuto non solo a Teramo e in Abruzzo. I nostri dischi sono stati distribuiti attraverso il circuito nazionale e, in un caso, anche a livello europeo». Quale caso? «Dieci anni fa registrammo il disco ‘When the night falls’ con Leighton Koizumi, americano, ex leader dei Morlocks, che alcune riviste davano per scomparso o morto. Riuscii a rintracciarlo, viveva a Los Angeles, e a convincerlo a fare un tour in Italia con noi. Un successo notevole, fu sold-out dappertutto. Ai concerti si presentavano i suoi fans storici, increduli di trovarsi di fronte al rocker che credevano morto, per farsi autografare i suoi dischi». Leihgton Koizumi può essere considerato un’icona rock ancora in attività al pari di altri mostri sacri come Iggy Pop. Avete in cantiere nuovi progetti con lui? «Con la nuova formazione a quattro dei Brainsuckers, è in preparazione il tour celebrativo del decennale dell’album ‘When the night falls’, prodotto dall’etichetta V2, che vedrà appunto la partecipazione di Leighton Koizumi che ora vive in Spagna. Con lui suoneremo a Pescara il 24 marzo al Cube». Perché con i Brainsuckers suoni mascherato? «Tutto nacque per scherzo, ancora prima che in Italia sbarcasse la moda del wrestling. È solo una trovata scenica». Che significa per te essere un musicista rock? «Per me è la normalità e non saprei concepire diversamente la mia vita. È una passione oltre che la forma d’arte con cui mi esprimo. Il rock non s’impara, ce l’hai dentro e basta». Dunque, non servirebbe a niente insegnare il rock a scuola? «Probabilmente no. Io però sono stato un privilegiato. Quando frequentavo le scuole medie, avevo un insegnante, Gianni Pizzoferrato, che ci faceva ascoltare Jimi Hendrix e studiare i Beatles». Che differenza c’è tra chi ascolta oggi e chi ascoltava ieri la musica rock? «I ragazzi di oggi hanno più possibilità, grazie ad Internet, di ascoltare tutta la musica che vogliono e di indirizzare la propria formazione come credono». Tu, quando eri ragazzo, che musica ascoltavi? «Ho ascoltato davvero tanta musica. Comunque, se dovessi fare una selezione, di sicuro Stooges, MC5, Love, 13th Floor Elevators, Morlocks, oltre ai classici Doors, Pink Floyd …». In Abruzzo chi può vantare la tua stessa esperienza o il tuo stesso percorso? «Uno per tutti, Umberto Palazzo, anche lui con una carriera ventennale e con ottime produzioni di livello nazionale. Poi mi vengono in mente gli Zippo, band di rock psichedelico. Molto bravi». Cosa manca nella nostra realtà perché un musicista rock possa esprimersi al meglio? «Tutto, qui manca tutto, a partire dai club dove poter suonare…». Ti immagini ancora rocker tra venti anni? «Assolutamente sì, ho colleghi molto più anziani come modello da seguire. E poi il rock, si sa, mantiene giovani». Chi è Tito Fabio Macozzi Dopo aver appreso da bambino i rudimenti del pianoforte classico, inizia a suonare la chitarra all’ età di 13 anni. A 16 forma la sua prima band, i Born Losers. In seguito entra nei Turn Sour (ex Swollencheek) e in seguito forma i Jacob’s Ladder, poi diventati nel 1991 Ghetto Raga, con i quali registrerà “Lo Spirito e il Corpo”, recensito da magazine nazionali come “Rockerilla” e “Rumore”. Dopo lo scioglimento dei Ghetto Raga, si dedica allo studio delle arti visive presso il DAMS di Bologna. Nel 1996, tornato a Teramo, forma i Brainsuckers, con Giancarlo “Jungle” Di Marco e Alessandro”Abarth” Antinori. Con questa formazione i Brainsuckers registrano quattro album esibendosi in centinaia di concerti in Italia e all’estero. In questi anni nasce anche la Brainville Productions, etichetta discografica e agenzia di organizzazione eventi. Nel 2003 l’incontro e la collaborazione con Leighton Koizumi, cantante di Gravedigger V e Morlocks, che produrrà diverse tournée in Italia e in Europa, nonché il disco “When the Night falls”, (Ammonia Records/V2, 2003), con Leighton Koizumi alla voce. Nel 2010, alla ricerca di nuove prospettive musicali (il soul, il rhythm ‘n’ blues), nascono insieme al bassista Giulio Di Furia gli Electric Flashbacks, che pubblicano “The Lovely Art of Electronics” (Misty Lane /Teen Sound 2011).Con questa band, Tito Macozzi si esibisce in diversi festival di importanza internazionale (primo fra tutti il Festival Beat) e in centinaia di concerti in pochi anni. Nicola Catenaro (Pubblicato su “La Città” del 21 marzo 2013) |
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