Non sono molti i chitarristi italiani che possono dire di aver suonato con leggende del blues come Bob Stroger, Willie “Big Eyes” Smith (il batterista di Muddy Waters), Jimmy Burns o J.W. Williams. Lui, Luca Giordano, abruzzese doc, a soli 33 anni può dirlo forte anche se la sua fama ha percorso più rapidamente il circuito dei locali e dei festival statunitensi che la sua provincia di nascita, ciò che lui stesso chiama il “nido”: Teramo. Chi l’avrebbe mai detto che questo ragazzo mingherlino e con la barba un po’ incolta, sempre sorridente ma fondamentalmente timido, sarebbe diventato un punto di riferimento, almeno negli States, tra i fedeli della musica nera per antonomasia, la cosiddetta “musica del diavolo”, il blues. Pazienza, in attesa che la sua città se ne accorga e gli conceda gli onori che merita (a proposito, il suo prossimo concerto a Teramo è fissato per il 1° dicembre, insieme al noto armonicista Marco Pandolfi), vi forniamo un suo gradevole ritratto. Luca Giordano, quando ha iniziato a suonare la chitarra? «Ho iniziato a strimpellare la chitarra da piccolo, intorno ai tredici anni, con una vecchia ma ottima chitarra classica di mia madre. Poi, pian piano, ho cominciato ad interessarmi di solistica». l suo primo contatto con il blues? «È stato in un piccolo locale del Teramano dove suonava una band. Si divertivano ed avevano un approccio alla musica molto libero e ludico». Quando è diventato un musicista professionista? «Dopo anni insieme alla mia prima blues band, i Jumpin’ Eye Blues Quintet, con cui abbiamo anche vinto diversi premi e partecipato a diverse rassegne, decido di partire per Chicago. Da quel giorno, posso dire che è cambiato tutto: ho scoperto nuovi punti di vista e soprattutto ho avuto la spinta decisiva per credere nella professione del musicista. In quei tre anni, alternati tra Stati Uniti ed Europa, ho cominciato le mie più importanti collaborazioni e da lì è ufficialmente iniziata la mia carriera». Con quali artisti blues ha suonato finora? Quali le collaborazioni di prestigio? «Ho avuto negli anni la fortuna di suonare al fianco di grandi artisti americani del circuito blues statunitense, e per lo più con la stragrande maggioranza degli artisti di Chicago. Ho iniziato con Les Getrex, chitarrista di Fats Domino, quindi J.W. Williams, della band di Buddy Guy & Junior Wells, ed ancora Sharon Lewis Eric Davis, James Wheeler, Chris Cain, Peaches Staten, Sax Gordon, Nellie Travis, Shirley King, figlia del re B.B. King, e, tra quelle che più mi stanno a cuore, senza dubbio Bob Stroger, 83 anni, bassista della Jimmy Rogers Band, e Willie Big Eyes Smith, leggendario batterista di Muddy Waters». Cos’è per lei il blues? «Il blues è un particolare modo di approcciare la musica. È un rapporto basato sul feeling, sull’istinto, sull’espressività e sulla comunicatività prima ancora che sulla tecnica. Del resto nasce e si sviluppa come musica di protesta e ribellione, come necessità di tirare fuori i propri blues, le proprie pene. Forse autenticità e genuinità sono due caratteristiche che esprimono al meglio il senso di questo genere. Per citare Pinetop Perkins: “If you don’t feel the blues, you have a hole in your soul” (letteralmente: se non riesci a sentire il blues, hai un buco nella tua anima, ndr)». Quanto è stato importante il blues per la musica rock? «Il blues è un po’ la mamma di tutte le musiche. Artisti come Eric Clapton o John Mayall hanno basato la loro carriera riproponendo classici del genere o reinterpretando artisti come John Lee Hooker, Robert Johnson o Howlin Wolf. Addirittura i Rolling Stones hanno ripreso il nome della band proprio da un brano di Muddy Waters». Al blues sono legate parecchie leggende, tra le quali forse la più nota è quella del patto con il diavolo in cambio del successo come si favoleggia sia avvenuto per Robert Johnson, il grande bluesman degli anni Trenta scomparso in circostanze misteriose a soli 27 anni. Cosa ne pensa? «Non è poi cambiato molto da allora. Anche oggi fior di artisti si inchinano alle logiche di mercato e del music business in cambio del successo e della carriera. Ma non dimentichiamoci che a quei tempi il gospel era considerato la musica del Signore e il blues quella del diavolo. In buona sostanza, tutta la musica che cantava della ribellione alle istanze sociali del tempo era considerata sacrilega». Perché il blues riscuote ancora oggi un così grande successo? «Forse perché è una grande valvola di sfogo per chi lo suona e per chi lo ascolta? Forse perché è un genere musicale facilmente fruibile da tutti, basato il più delle volte su pochi accordi ma su tanto groove? O forse perché è paragonabile più alla sana e genuina cucina casereccia, con i relativi trucchi tramandati da generazioni che non trovi sui libri di cucina e con tanto amore, piuttosto che alla raffinata cucina di uno chef a cinque stelle». Qual è il suo ricordo più bello da musicista? «Sul palco con Willie Big Eyes Smith, batterista di Muddy Waters, Bob Stroger e Willie Mayes al Virginia Beach Blues Festival 2011. Non lo dimenticherò mai». Che rapporto ha con Teramo e l’Abruzzo? «Diciamo che Teramo rappresenta un po’ il mio nido, al quale tornare dopo mesi di tour o viaggi all’estero per godermi il meritato riposo del guerriero. Sono nato qui e ho qui la mia famiglia, ed anche il mio terreno con il mio orto… L’ Abruzzo è una regione stupenda. Abbiamo il mare, la montagna, la campagna, paesaggi e borghi strepitosi, vino ottimo e cucina eccezionale. Quello che serve per una vita da re. Ciò che manca, come ormai nella stragrande maggioranza del paese Italia, è la cultura con la lettera maiuscola: musica, teatro, scultura, poesia … arte in generale e spazi per gli artisti. Ormai al giorno d’oggi si arriva addirittura a dire che con la cultura non si mangia, quindi mi sento di dire che è un problema globale più che provinciale». Cosa consiglierebbe a un giovane musicista che volesse seguire le sue orme? «Consiglierei il viaggio. Il viaggio porta freschezza, rinnovamento, confronto, ma soprattutto punti di vista diversi sul mondo. E dal viaggio si torna più maturi e con tanta esperienza sulle spalle. L’importante è non perdersi». CHI È:
Luca Giordano inizia la sua avventura all’età di 20 anni, sviluppando anno dopo anno il proprio particolare stile grazie ad una profonda passione per il blues. Trasferitosi a Chicago, inizia un lungo periodo d’intensa gavetta. Intraprende diverse collaborazioni con artisti del panorama blues locale, come Les Getrex Band, Sharon Lewis and Texas Fire, e con il leggendario J.W. Williams, che ha affiancato per più di un mese in sostituzione del suo chitarrista Shun Kikuta il quale era in tour con Koko Taylor. Nel 2008 incontra Eric Guitar Davis ed avvia con lui un’ottima collaborazione e una grande amicizia. Nel 2011 si esibiscono insieme al “Chicago Blues Festival” presso il Crossroad Stage ed il Windy City BluesStage. Con la sua band, Luca suona nei migliori club e festival statunitensi ed europei ed anche come sideman per leggende del Chicago Blues, come Bob Stroger, Willie “Big Eyes” Smith (leggendario batterista di Muddy Waters), Jimmy Burns e J.W. Williams. Oltre alle diverse collaborazioni che lo portano a una forte versatilità stilistica, rende omaggio insieme al suo collaboratore e grande amico armonicista, Quique Gomez, al blues tradizionale della vecchia scuola di Chicago. Partendo dal blues tradizionale, con colori sgargianti e toni a scanalature più sperimentali, Luca Giordano costruisce il suo spettacolo che riecheggia storie ed esperienze personali, collaborazioni ed esperienze, facendosi anche intenso omaggio ad alcuni dei suoi ispiratori come Carlos Johnson, Chris Cain, J.W. Williams e Lurrie Bell, solo per citarne alcuni. ------------------------------------------------------------------------------------------------ Nicola Catenaro
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Dicembre 2023
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