-Da cosa ti senti ispirato per la tua musica? Penso che la maggior parte dell'ispirazione l'ho avuta dalla musica che non ascoltavo. Da lì ho capito l'importanza dell'apertura mentale a 360 gradi quando si parla di musica e non aver paura di farsi contaminare anche dai “generi” che non sentiamo ci appartengano in prima persona. -Il tuo primo album completo: "Sporcami la pelle"... di cosa? Sporcami la pelle è tutto quello che sono. Ho riversato dentro questo album tutto me stesso. Racchiude tutte le fasi che ho attraversato fino ad ora nella mia vita e con il titolo e l'immagine di copertina volevo lanciare appunto questo messaggio. Oltre al fatto che con tutte le mani colorate di vernice volevo rappresentare la contaminazione di vari generi musicali che non credevo mai potesse essere possibile. Sono lì, fanno parte di te, solo che non lo sai fino a che non vengono fuori. -Il disco è stato autoprodotto ed hai deciso di farlo avere al pubblico che incontri dal vivo a seguito di un'offerta libera. Sì, a dire il vero la metà di questo disco è stata finanziata, grazie a musicraiser, dalla gente che segue i miei lavori e voleva contribuire alla realizzazione di questo album. Quindi per metà è autoprodotto e per metà finanziato dalla mia fanbase. -Guardando i tuoi video ci si diverte davvero. Quanto conta l'ironia nella tua espressione artistica? In realtà nelle mie canzoni ci sono dei sensi più profondi di quanto lascino a vedere, mi piace coglierne l'ironia e metterla in chiave giocosa perché rispecchia quello che sono nella vita reale, oltretutto con le problematiche che ci sono nel mondo d'oggi penso che la gente voglia qualcosa di leggero con cui svagarsi e divertirsi un po'. -Oltre ad essere un cantautore ed un chitarrista virtuoso mi sembra che tu ti esprima bene anche come attore di commedia... Ahahaha si lo penso anch'io. Ho sempre sognato di fare l'attore cinematografico e sin da bambino ho frequentato qualche anno di scuola di teatro. Adoro il teatro. Poi arriva quel momento nella vita in cui capisci che devi concentrare tutte le tue energie in un unica cosa e quella è stata ovviamente la musica sennò non staremmo qui a parlarne. :-) -L'ultimo libro, film e disco che hai apprezzato. Se giochi ai videogames, a cosa in particolare? Mi piacciono molto giochi enigmatici, tra i miei preferiti Broken Sword. Sono un fan sfegatato. Per quanto riguarda i film sono un grande sostenitore del cinema e acquisto tutti i film che voglio vedere. Ho una grande bacheca con molti dvd e blu ray. Non ho un genere preferito ma adoro tutti i film purché siano fatti bene e con una buona trama. Leggo abbastanza, spesso gialli in chiave horror. Tra i miei scrittori preferiti vorrei citare stephen king, ho quasi tutte le sue opere. L'ultimo letto? La casa del buio (di S. King e P. Straub, pubblicato nel 2001-ndr). -Una domanda a cui ti piacerebbe rispondere? -Mi piacerebbe far sapere che sono in finale al Festival di Avezzano, un concorso nazionale che si svolgerà il 13 e il 14 aprile, e che inoltre sono in attesa dell'esito delle votazioni per l'ammissione a salire sul palco del 1° maggio a Roma. -Grazie e a presto. Grazie a te Fabio per questa chiacchierata. Intervista di Fabio Cost
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Antonello Recanatini, classe 1968, vive a Roseto degli Abruzzi. Più di venti anni fà era la chitarra e voce degli Sly Six (di Roseto - con Claudio Di Nicola alla batteria e Francesco Polcini al basso). Negli anni '90 si integra con gli Hidden Sins (di Teramo - poi diventati Straker's nephews) ed infine cura oggi il suo progetto acustico solista in contemporanea all'attività dei Pre-Cog in the bunker in duo con la sua compagna. Leggiamo l'intervista per Teramorock. Antonello, sei un songwriter, rocker, videoartista, appassionato di letteratura fantascientifica. Qual'è il filo che lega queste attitudini? Direi la sinergia che si crea fra passato e futuro. Sono ciò che la vita mi ha dato, e sarò' o cercherò' di essere ciò che la vita, le mie esperienze i miei interessi mi daranno. Con purezza e sincerità', come la definisco io con una attitudine Punk. Aggiungo il fatto di avere delle idee, averle per me e' importante. Nel panorama italiano, questa scarsezza di idee pervade tutto, non solo l'arte in generale, ma anche la vita sociale e politica della nazione stessa.
Di cosa parla di solito la musica che scrivi? (Quella da solista e quella con i PreCog in the Bunker). I testi delle mie canzoni, spesso sono caratterizzati da un linguaggio caro alla letteratura di fantascienza, ma non solo, anche al Cinema altra mia grandissima passione, sia dal punto di vista emotivo che tecnico. Un linguaggio il più' poetico possibile, come solista in tal caso la definizione di folksinger Sci-Fi, coniata per me, calza a pennello, ed anche nel mio progetto in elettrico, Pre-Cog In The Bunker. Io tento di esprimere una poeticità' fantascientifica, se cosi posso dire, tale poeticità' nella produzione letteraria o almeno in certe fasi della mia produzione (Combat Reading) viene fuori meno, per me la letteratura deve essere violenta, utilizzare linguaggi nuovi, brutali, un linguaggio crudo, mediato dalla strada, di rottura, come un pugno in faccia, perché' altrimenti ad essere troppo melensi, non si comunica nulla o non rimane nulla. Se Leopardi vivesse ora scriverebbe cosi, secondo me.
Cosa rappresenta esattamente per te il mondo letterario di Philip Dick? Il mondo letterario di Dick ha cambiato la mia vita, come ha fatto la musica. Le mie letture di fantascienza iniziano con 1984 di Orwell, poi la scoperta Dick, e Asimov, aggiungerei. I tanti libri letti hanno sicuramente influenzato la mia produzione musicale, ma anche quella di videomaker e scrittore. Dick ha scritto moltissimo, mantenendo una qualità' eccellente durante il corso della sua carriera, rivoluzionando e ispirando la letteratura internazionale ed il cinema, ho letto moltissimi suoi libri. Le infinite trovate narrative e profetiche fanno di Dick uno scrittore geniale, scrive benissimo, crea trame geniali, e' innovativo, ironico, profetico e filosofico, ma anche impegnato, come scrittore di fantascienza analizza la società' e ne mette a nudo i difetti, i pochi pregi, le contraddizioni e spinge a porci domande, poi le droghe, l' I-Ching, la filosofia, gli alieni, i media, un mondo complesso che fa di lui uno scrittore del quale una volta iniziata la frequentazione, non se ne può' più' fare a meno. Cosi e' per me. Cosa volevi dire con l'espressione "Abruzzo invented punk"? Una provocazione, ed una “assurda” convinzione che il Punk sia nato in Abruzzo; ma anche una citazione, “J'e 'so punk”, e' un' espressione coniata dal mio amico Marco Trentini, bassista degli Hidden Sins, band della quale sono stato chitarrista agli inizi degli anni 90. Tale espressione fa parte da anni della mia vita, spero di esternarla con ciò che faccio, la ripeto spesso, l'ho scritta in una mia poesia intitolata Ferie. Je so Punk, e' diventato un motto comune fra me ed i miei amici, e' stato lo spunto per il titolo del mio ultimo Album acustico, Abruzzo Invented Punk, che vede la collaborazione di altri musicisti della scena teramana (Andrea Marrama', Claudio e Danilo Di Nicola, Miriam Di Sabatino e Giancarlo Di Marco) edito dalla Nova Feedback Records, di Danilo Di Feliciantonio. Io non ho ancora sentito Lombardia invented punk, a me e' venuta questa idea, la trovo tuttora interessante, lo confesso sono un fan di questa regione, ma nel particolare vuole essere un omaggio a tutti gli amici corregionali che hanno condiviso e condividono con me passioni, musica ed interessi. Punk Never Dies, Abruzzo Invented Punk. InterUltimo disco, libro, film, videogame passato per le tue mani? Disco: Ogni ultimo disco di L. Cohen. Libro: We can build you, di p.k.dick Film: Shadows and Lights di S. Dwoskyin Videogame: Tetris C'è una domanda che ti piacerebbe ti venisse rivolta? Cosa pensi degli artisti? A me gli artisti stanno sul cazzo, io sono per gli scienziati e per Gerry Kasparov. ------------- Intervista di Fabio Cost. PRIMO ALBUM PER IL TRIO TERAMANO laBase
Intervista di Cesare Di Flaviano a Mirko Lucidoni: Come e quando nasce il vostro progetto? Il progetto nasce dal 2006/2007 quando decisi di mettermi al lavoro in veste di chitarrista e cantante. Molti brani sono nati e si sono evoluti nel tempo, in quanto la formazione ha avuto diversi cambiamenti. Dall'estate 2013 si è definita quella che è l'attuale line up, muovendoci come trio. L'intenzione è stata quella di creare un sound aggressivo e allo stesso tempo giocare parecchio sugli arrangiamenti, anche in virtù del fatto che alcuni pezzi erano stati pensati per una formazione con due chitarre, a me piace molto giocare sulle sovraincisioni in studio. Antropoparco è un neologismo, che cosa vuol dire? A me piace creare neologismi, Antropoparco è come se fosse la visione di un'umanità in stile "parco zoologico", il nome che un'ipotetica razza aliena che ci osserva assegna al nostro mondo, ma anche ad un cyberspazio dove siamo inconsapevoli e indifesi protagonisti di un grande giocatore che ci domina. Ma può avere anche altre interpretazioni, mi piace confondere e lasciare spazio all'interpretazione del pubblico. Spesso la creazione di concetti complessi o misteriosi passa attraverso intuizioni istintive. Mi ritengo un personaggio pasoliniano, un po' "pecoreccio". Spesso tematiche che appaiono complesse sono in realtà slegate da arzigogoli e visioni chissà quanto complicate. Come preferisci muoverti quando scrivi i testi? Nella mia scrittura cerco di cogliere l'attimo e creare una buona commistione fra atto istintivo della scrittura e giusta collocazione, anche a livello sonoro, delle diverse parole; è un enorme collage, l'intenzione è anche quella di confondere, anche prendere e prenderci un po' in giro, nell'accezione positiva del concetto. Quali sono i vostri ascolti e le vostre letture? Bob Dylan, Crosby, Stills, Nash & Young, Cure, JoyDivision, Nirvana, ma anche la musica italiana: Tenco, i Marlene e tutta la scena degli anni '90. Per le letture amo Montale, Ungaretti, Poe, per citarne alcuni. Di cosa parla “Primavera”, brano che ha aperto la strada al lavoro definitivo? “Primavera” tratta della fine di una relazione, e quella di cui si parla è la morte dell'anima, tutto quel complesso di esperienze, emozioni e ricordi che dobbiamo, ad un certo punto, esorcizzare per tornare vivi. Il rettile ha un testo molto intenso, ma dove vuole realmente arrivare? Il rettile è la parte viscida che ognuno di noi ha dentro sé, il male che ognuno di noi contiene. È nella natura dell'uomo cercare di sovrastare il prossimo, emergere e dominare. Ma le interpretazioni possono essere varie. Lo stesso titolo è pensato per poter arrivare velocemente nella memoria del fruitore. La copertina ha qualche collegamento diretto con le tematiche del disco? La copertina rappresenta un labirinto, quello nel quale ci muoviamo tutti i giorni, quello dove ci è impossibile ritrovarci; il labirinto che ci hanno costruito intorno, per tenerci buoni, disinformati e apatici. Ci costringono a delle vite talmente impegnate da non avere, spesso, nemmeno la voglia e il tempo di informarci, parte della colpa è nostra, dobbiamo reagire e abbandonare l'atteggiamento lascivo che ci fa guardare con occhio passivo la politica e la società, ad esempio credo che il suffragio universale sia una farsa, ci danno il contentino del voto, ma non siamo noi a decidere, vedi il domino del Pentapartito fino allo scandalo di mani pulite oppure Berlusconi e via discorrendo. Sono i mezzi di informazione che ci manipolano e ci portano dove vogliono loro. Il voto dovrebbe essere permesso esclusivamente alle persone che superano un esame sulla costituzione. Progetti futuri? Abbiamo il secondo cd già pronto, addirittura del materiale per il terzo. Cercheremo di suonare il più possibile e far sentire la nostra voce. In bocca al lupo ragazzi. L’album è disponibile su tutti gli store digitali dal febbraio 2015. Scaricabile gratuitamente da www.lanoia.it/downloads
Ufficio stampa: www.produzionimammut.it Sito Web: www.labaseband.com Social: www.facebook.com/labaseband www.youtube.com di: storieabruzzesi.it blog d'informazione Cronista di giorno, musicista (rock) di notte Musicista rock, esperto di basket, giornalista, interprete, traduttore. La personalità di Paolo Marini è alquanto eclettica. Chi scrive lo ha conosciuto da musicista, condividendo con lui uno dei suoi primi progetti (i “Blank”, riemersi di recente sulla piattaforma Teramorock.com) a metà degli anni Novanta. Ora questo collega dai mille interessi, che fatica a trovare del tempo libero nonostante nutra la sola ambizione di coltivare insieme tutte le sue passioni, sta per tagliare il traguardo dei venti anni di carriera musicale. Una passione coltivata silenziosamente, ma che gli è valsa alcuni significativi riconoscimenti, a livello nazionale, da riviste musicali specializzate. Con lui parliamo di tutto, partendo naturalmente dalla musica. Qual è stata la scintilla da cui è partito tutto e chi (band, persona o altro) ringrazi per questo? «Posto che carriera mi sembra un termine impegnativo nel mio caso, posso dire che la scintilla è stata innescata dalla voglia di condividere urgenze e piaceri con amici, e da una naturale esigenza espressiva». Come definiresti la tua musica? «Un modo diretto per entrare in contatto con altre sensibilità». Si tratta comunque di un tentativo di evadere dalla realtà oppure di interpretarla e quindi, in qualche maniera, di esorcizzarla? «Più che di evasione parlerei di sopravvivenza sul campo. Pur avendo viaggiato e ricevuto la spinta ad inserirmi stabilmente in contesti culturali differenti, vicende personali mi hanno portato a scegliere di rimanere a Teramo. La musica resta una componente fondamentale della mia vita, ma ho i piedi ben piantati a terra». Delawater o Amelie Tritesse? Quale dei due progetti musicali riflette meglio la tua personalità? «Meglio o peggio, in entrambi i contesti vengono fuori amicizia, ricerca sonora e curiosità. Questi sono sempre stati elementi basilari nel mio percorso musicale. Con Amelie Tritesse si sperimenta più con le parole, grazie alle storie scritte da Manuel Graziani (gli altri membri della band sono Stefano e Giustino Di Gregorio, e Matteo Borgognoni), mentre con i Delawater (ne fanno parte anche Pierluigi Filipponi, Andrea Marramà, Stefano Di Gregorio e Serafino Bucciarelli) si viaggia su coordinate sonore più melodiche e psichedeliche, come hanno sottolineato molti recensori dell’ultimo disco “Open book at page eleven”». Le cinque soddisfazioni più belle ricevute in campo musicale. «In fase random, direi: intervistare a Bologna il chitarrista degli Slint, David Pajo; chiacchierare con Mark Lanegan con indosso una maglietta dei Pixies; sentire più volte su RadioRai3 le canzoni di Iver and the driver, progetto “folk-tronico” che ho creato con Giustino Di Gregorio; suonare sullo stesso palco un po’ prima di Thurston Moore dei Sonic Youth; trovare gli stimoli giusti per evolvermi musicalmente ed evitare di suonare sempre la stessa canzone». Non male anche essere riusciti ad ottenere riconoscimenti in campo nazionale da parte ad esempio delle riviste di settore. Resta il problema di come finanziare questa passione… «Ci si finanzia suonando e valutando attentamente se è più urgente investire in un nuovo effetto per chitarra, un nuovo portatile o un nuovo disco. Poi, il tempo aiuta a svuotarsi di ambizioni fuori contesto. In Italia campare con una proposta musicale non convenzionale diventa molto improbabile. Quindi, per rispondere alla tua domanda: razionalizzo!». Ogni città – e parliamo ovviamente di Italia – ha il suo circuito di band giovanili locali che, però, restano quasi sempre “undergound” rispetto alla manifestazioni culturali dominanti. Eppure il fenomeno richiama l’attenzione di centinaia, a volte di migliaia di ragazzi. Ritieni che per la musica rock e le sue derivazioni ci sia un pregiudizio o un atteggiamento volutamente discriminatorio da parte degli amministratori locali (tipo tenere a bada i violenti)? «Sarò tra virgolette sorpassato ma preferisco che l’underground resti tale, un mondo da scoprire, da andarsi a cercare. Il valore di un evento si misura in pubblico se lavori come politico o sondaggista, io non ne faccio invece un discorso numerico ma di contesto. Possono starci dieci o mille persone davanti a una band che suona dal vivo, ma se stai vivendo un’esperienza precostituita o genuina lo definisce il dove ti trovi in quel preciso momento. Sono cresciuto con queste convinzioni e ancora le considero credibili». Musicista ma anche giornalista: dalle cronache musicali e del basket nazionale alla direzione di un sito internet locale: rifaresti tutto? «Diciamo che mi attira più cercare di fare meglio in futuro che rifare un po’ meglio il passato (risate)». Teramo nell’Olimpo del basket nazionale dal 2003 al 2012. Quasi dieci anni di permanenza in serie A hanno lasciato solo debiti a Teramo o qualcosa di più? «Questo periodo mi ha dato e tolto un lavoro, mi ha lasciato una condivisa amarezza e la sensazione che a risultati troppo grandi da sostenere spesso corrispondono scelte troppo grandi da sostenere». Qual è stato, secondo te (da osservatore esterno), l’errore più grande che ha portato al fallimento della società? «Farsi trascinare dalle ambizioni sempre e comunque, a fronte di un sistema che sembra indurre a ritenere questo approccio percorribile». Dirigi un sito di informazione locale. Qual è secondo te il limite del giornalismo online locale? E quale il suo futuro? «Il limite del giornalismo online locale è che nella maggior parte dei casi non crea reddito sufficiente, e inoltre non vedo grandi investimenti nel settore. Ci sono pochissimi che stanno bene e tantissimi che si sbattono per sopravvivere. La situazione va peggiorando, e oltre a deprimere costantemente le vite di chi vorrebbe semplicemente lavorare in maniera dignitosa, la qualità del servizio tende a scendere. Futuro? Al momento, grigio». Cosa rimprovereresti alla tua città se dovessi giudicarla da artista? «Esprimo la mia sensibilità tramite la musica ma sentirmi chiamare artista mi suona un po’ eccessivo. Io non provo a campare della mia arte, non vivo dopotutto in un contesto che mi permetterebbe di farlo. I rimproveri sono conseguenza delle aspettative e io ne ripongo poche ad esempio nelle istituzioni. Lo dico a ragion veduta perché per anni sono stato attivo nell’organizzare iniziative. In zona esistono e resistono comunque valide micro realtà, e anche se il lavoro ha ridotto il tempo a disposizione per le passioni, quando posso cerco contesti interessanti. Per fortuna ci sono teramani che mi trasmettono ancora entusiasmi condivisibili». CHI È Nato il 6 agosto 1972 a Teramo, si è laureato in Lingue e Letterature Straniere all’Università di L’Aquila nel 2000 e ha passato del tempo in Inghilterra a perfezionare “sul campo” l’inglese. Tornato in città, ha intrapreso l’attività di giornalista occupandosi di sport, cronaca locale e altro per il quotidiano “Il Messaggero” e maturando così i requisiti per l’iscrizione all’Ordine dei giornalisti. Ha affiancato diverse attività lavorative al giornalismo, sia a livello locale (“Teramo Triathlon Team”, “Cineforum Teramo”, Università di Teramo, Provincia di Teramo) sia a livello nazionale (la rivista di basket “Dream Team”, per la quale ha scritto report da New York City). Da oltre tre anni è direttore responsabile del primo quotidiano on-line nato in Abruzzo, TeramoNews.com, e continua ad ampliare il proprio coinvolgimento nel mondo della scrittura per il web con altre collaborazioni. Ha parlato per anni di musica sul magazine “Mood” e condotto programmi per RadioFrequenza. La casa editrice “Demian” gli ha affidato anni fa il compito di coordinare la raccolta di racconti scritti da autrici teramane “TestiMonia”. Da molto tempo scrive canzoni e realizza dischi con vari progetti musicali (Blank, Matt Murdock, Orange Indie Crowd, Famous Players, Iver and the driver, Amelie Tritesse, Delawater, The dead man singing). Ha una passione smisurata per il basket NCAA (il massimo livello del basket collegiale negli Stati Uniti d’America) e gioca nel campionato CSI di pallacanestro con la “Teramo a Spicchi”. Nicola Catenaro Intervista pubblicata su “La Città quotidiano” del 23 gennaio 2014 Fai clic qui per effettuare modifiche.
Non sono molti i chitarristi italiani che possono dire di aver suonato con leggende del blues come Bob Stroger, Willie “Big Eyes” Smith (il batterista di Muddy Waters), Jimmy Burns o J.W. Williams. Lui, Luca Giordano, abruzzese doc, a soli 33 anni può dirlo forte anche se la sua fama ha percorso più rapidamente il circuito dei locali e dei festival statunitensi che la sua provincia di nascita, ciò che lui stesso chiama il “nido”: Teramo. Chi l’avrebbe mai detto che questo ragazzo mingherlino e con la barba un po’ incolta, sempre sorridente ma fondamentalmente timido, sarebbe diventato un punto di riferimento, almeno negli States, tra i fedeli della musica nera per antonomasia, la cosiddetta “musica del diavolo”, il blues. Pazienza, in attesa che la sua città se ne accorga e gli conceda gli onori che merita (a proposito, il suo prossimo concerto a Teramo è fissato per il 1° dicembre, insieme al noto armonicista Marco Pandolfi), vi forniamo un suo gradevole ritratto. Luca Giordano, quando ha iniziato a suonare la chitarra? «Ho iniziato a strimpellare la chitarra da piccolo, intorno ai tredici anni, con una vecchia ma ottima chitarra classica di mia madre. Poi, pian piano, ho cominciato ad interessarmi di solistica». l suo primo contatto con il blues? «È stato in un piccolo locale del Teramano dove suonava una band. Si divertivano ed avevano un approccio alla musica molto libero e ludico». Quando è diventato un musicista professionista? «Dopo anni insieme alla mia prima blues band, i Jumpin’ Eye Blues Quintet, con cui abbiamo anche vinto diversi premi e partecipato a diverse rassegne, decido di partire per Chicago. Da quel giorno, posso dire che è cambiato tutto: ho scoperto nuovi punti di vista e soprattutto ho avuto la spinta decisiva per credere nella professione del musicista. In quei tre anni, alternati tra Stati Uniti ed Europa, ho cominciato le mie più importanti collaborazioni e da lì è ufficialmente iniziata la mia carriera». Con quali artisti blues ha suonato finora? Quali le collaborazioni di prestigio? «Ho avuto negli anni la fortuna di suonare al fianco di grandi artisti americani del circuito blues statunitense, e per lo più con la stragrande maggioranza degli artisti di Chicago. Ho iniziato con Les Getrex, chitarrista di Fats Domino, quindi J.W. Williams, della band di Buddy Guy & Junior Wells, ed ancora Sharon Lewis Eric Davis, James Wheeler, Chris Cain, Peaches Staten, Sax Gordon, Nellie Travis, Shirley King, figlia del re B.B. King, e, tra quelle che più mi stanno a cuore, senza dubbio Bob Stroger, 83 anni, bassista della Jimmy Rogers Band, e Willie Big Eyes Smith, leggendario batterista di Muddy Waters». Cos’è per lei il blues? «Il blues è un particolare modo di approcciare la musica. È un rapporto basato sul feeling, sull’istinto, sull’espressività e sulla comunicatività prima ancora che sulla tecnica. Del resto nasce e si sviluppa come musica di protesta e ribellione, come necessità di tirare fuori i propri blues, le proprie pene. Forse autenticità e genuinità sono due caratteristiche che esprimono al meglio il senso di questo genere. Per citare Pinetop Perkins: “If you don’t feel the blues, you have a hole in your soul” (letteralmente: se non riesci a sentire il blues, hai un buco nella tua anima, ndr)». Quanto è stato importante il blues per la musica rock? «Il blues è un po’ la mamma di tutte le musiche. Artisti come Eric Clapton o John Mayall hanno basato la loro carriera riproponendo classici del genere o reinterpretando artisti come John Lee Hooker, Robert Johnson o Howlin Wolf. Addirittura i Rolling Stones hanno ripreso il nome della band proprio da un brano di Muddy Waters». Al blues sono legate parecchie leggende, tra le quali forse la più nota è quella del patto con il diavolo in cambio del successo come si favoleggia sia avvenuto per Robert Johnson, il grande bluesman degli anni Trenta scomparso in circostanze misteriose a soli 27 anni. Cosa ne pensa? «Non è poi cambiato molto da allora. Anche oggi fior di artisti si inchinano alle logiche di mercato e del music business in cambio del successo e della carriera. Ma non dimentichiamoci che a quei tempi il gospel era considerato la musica del Signore e il blues quella del diavolo. In buona sostanza, tutta la musica che cantava della ribellione alle istanze sociali del tempo era considerata sacrilega». Perché il blues riscuote ancora oggi un così grande successo? «Forse perché è una grande valvola di sfogo per chi lo suona e per chi lo ascolta? Forse perché è un genere musicale facilmente fruibile da tutti, basato il più delle volte su pochi accordi ma su tanto groove? O forse perché è paragonabile più alla sana e genuina cucina casereccia, con i relativi trucchi tramandati da generazioni che non trovi sui libri di cucina e con tanto amore, piuttosto che alla raffinata cucina di uno chef a cinque stelle». Qual è il suo ricordo più bello da musicista? «Sul palco con Willie Big Eyes Smith, batterista di Muddy Waters, Bob Stroger e Willie Mayes al Virginia Beach Blues Festival 2011. Non lo dimenticherò mai». Che rapporto ha con Teramo e l’Abruzzo? «Diciamo che Teramo rappresenta un po’ il mio nido, al quale tornare dopo mesi di tour o viaggi all’estero per godermi il meritato riposo del guerriero. Sono nato qui e ho qui la mia famiglia, ed anche il mio terreno con il mio orto… L’ Abruzzo è una regione stupenda. Abbiamo il mare, la montagna, la campagna, paesaggi e borghi strepitosi, vino ottimo e cucina eccezionale. Quello che serve per una vita da re. Ciò che manca, come ormai nella stragrande maggioranza del paese Italia, è la cultura con la lettera maiuscola: musica, teatro, scultura, poesia … arte in generale e spazi per gli artisti. Ormai al giorno d’oggi si arriva addirittura a dire che con la cultura non si mangia, quindi mi sento di dire che è un problema globale più che provinciale». Cosa consiglierebbe a un giovane musicista che volesse seguire le sue orme? «Consiglierei il viaggio. Il viaggio porta freschezza, rinnovamento, confronto, ma soprattutto punti di vista diversi sul mondo. E dal viaggio si torna più maturi e con tanta esperienza sulle spalle. L’importante è non perdersi». CHI È:
Luca Giordano inizia la sua avventura all’età di 20 anni, sviluppando anno dopo anno il proprio particolare stile grazie ad una profonda passione per il blues. Trasferitosi a Chicago, inizia un lungo periodo d’intensa gavetta. Intraprende diverse collaborazioni con artisti del panorama blues locale, come Les Getrex Band, Sharon Lewis and Texas Fire, e con il leggendario J.W. Williams, che ha affiancato per più di un mese in sostituzione del suo chitarrista Shun Kikuta il quale era in tour con Koko Taylor. Nel 2008 incontra Eric Guitar Davis ed avvia con lui un’ottima collaborazione e una grande amicizia. Nel 2011 si esibiscono insieme al “Chicago Blues Festival” presso il Crossroad Stage ed il Windy City BluesStage. Con la sua band, Luca suona nei migliori club e festival statunitensi ed europei ed anche come sideman per leggende del Chicago Blues, come Bob Stroger, Willie “Big Eyes” Smith (leggendario batterista di Muddy Waters), Jimmy Burns e J.W. Williams. Oltre alle diverse collaborazioni che lo portano a una forte versatilità stilistica, rende omaggio insieme al suo collaboratore e grande amico armonicista, Quique Gomez, al blues tradizionale della vecchia scuola di Chicago. Partendo dal blues tradizionale, con colori sgargianti e toni a scanalature più sperimentali, Luca Giordano costruisce il suo spettacolo che riecheggia storie ed esperienze personali, collaborazioni ed esperienze, facendosi anche intenso omaggio ad alcuni dei suoi ispiratori come Carlos Johnson, Chris Cain, J.W. Williams e Lurrie Bell, solo per citarne alcuni. ------------------------------------------------------------------------------------------------ Nicola Catenaro di NICOLA CATENARO Storia di un batterista che diventò deejay del mondo storieabruzzesi.it, blog d'informazione Abruzzese doc, ma non sembra affatto. L’idea che ti fai quando lo incontri è che sia un indiano metropolitano allevato per sbaglio a Teramo. Un po’ hippy, un po’ filosofo. Ma sempre incredibilmente pieno di impegni, tra Ibiza (la sua nuova residenza artistica) alle coste del Sudamerica o del Giappone. In realtà Stefano De Angelis, cittadino del mondo, è semplicemente un artista molto colto oltre che un raffinato deejay. Lo intervistiamo alla vigilia della sua esibizione con Elisa Di Eusanio per lo spettacolo che l’attrice ha ideato e organizzato, all’interno del teatro romano di Interamnia, in memoria della madre, l’indimenticata Mariella Converti. Una nuova occasione, per De Angelis, di pizzicare in profondità le corde sensibili degli spettatori e far vibrare nell’aria musica potente e suggestiva. Stefano De Angelis (foto di Antonio Di Sabatino) Stefano De Angelis, perché ha lasciato Roma e ha scelto Ibiza per esprimersi? «Partirei dal mio rapporto con Roma, una realtà che mi è molto cara. Una delle città più belle del mondo e sicuramente, dal punto di vista artistico, una culla che ti permette di trattare certi temi quando sei sincronizzato con il Paese in cui vivi». Quanto tempo ha vissuto a Roma? «Sette anni. A Roma, dove sono approdato dopo essere stato all’estero, a Londra, per cinque anni, avevo un’etichetta (la CiniK Records, ndr) insieme ad Enrico Melozzi ed ero molto collegato con i problemi dell’Italia, del suo quotidiano. Facevo molte cose per il teatro Valle, mi occupavo in particolare della parte sociale, e andavo a dormire chiedendomi se avessi o meno utilizzato la mia giornata per far riflettere oltre che per far divertire. Una scena, quella in cui vivevo a Roma, che potremmo definire, tra virgolette, underground. Dall’altro lato, vivevo comunque il limite di portare avanti un progetto musicale sostanzialmente mainstream». E poi? «E poi è accaduto che la scena di Ibiza ha cominciato a spingere molto di più e ad offrirmi possibilità infinite dal punto di vista artistico. Già frequentavo l’isola da un po’ ma non avevo mai ragionato sull’opportunità concreta di fare musica così minimale com’è la musica elettronica». Come sta andando l’esperienza nelle isole Baleari? «Molto bene. Ibiza è come una matrice, una porta che ti connette a un circuito e ti trascina via. La sensazione non è quella di trovarsi nel sud della Spagna, ma di trovarsi in un posto in cui transitano tante persone ed etnie e situazioni che comunque rimangono collegate tra di loro». Ha iniziato facendo cosa ad Ibiza? «Ho iniziato nello studio degli Etnica, una band di musica trance (composta da artisti italiani, ndr) molto famosa negli anni Novanta e molto nota soprattutto in Israele e in Russia. Qui, quando si esibiscono, lo fanno negli stadi. Da noi sono meno conosciuti. Per anni hanno organizzato festival musicali all’aperto nel Sudafrica, in Brasile e in posti tropicali. Con loro, in particolare con Max Lanfranconi, un personaggio molto carismatico, una sorta di Claudio Cecchetto della musica elettronica, ho avviato una collaborazione importante nell’ambito della musica techno. Un progetto sperimentale confluito nei Technica che, nelle esibizioni dal vivo, siamo sostanzialmente io e Max». Qual è il vostro obiettivo? «Creare una scena nuova, portare musica house e techno in posti abituati alla musica trance: Israele, Sudafrica, Brasile, Marocco, Giappone». La gente apprezza di più la sua musica a Ibiza? «Non parlerei di musica fatta al di fuori dell’Italia. Parlerei invece del fatto che esiste gente che va all’estero per ballare e partecipare a feste, ritrovi che io chiamo in modo indefinito international party people e che è difficile collocare in luoghi precisi. La mia musica funziona molto in questi spazi grandi e in questi ampi contesti, così almeno mi dicono. Certo, se penso all’Italia ricordo di essere stato un personaggio molto enzimatico, un personaggio che tendeva a corrodere l’ambiente in cui si trovava molto presto. Il che mi fa pensare che forse in Italia non ero capito». Come è diventato musicista o, se preferisce, artista? «Dopo anni di tentativi di autodefinizione, ho trovato finalmente questa parola che mi contiene. Direi che ho dovuto fare l’artista perché ho provato a fare altre cose e non è che mi interessassero molto. L’altra, quella artistica, è invece sempre andata come un treno. Ho iniziato a suonare quando ero piccolo e poi con la mia prima band, Il Komplesso di Edipo, costituita da Enrico Melozzi, Matteo De Virgiliis e Francesco Franchi oltre che dal sottoscritto. Abbiamo fatto grandi cose qui in zona». Deve un grazie a qualcuno per la sua formazione? «Sicuramente alla mia famiglia per la stabilità e la fiducia che mi hanno offerto in maniera incondizionata. E poi agli amici, a partire da Enrico Melozzi, con i quali ho avviato collaborazioni che sono diventate veri e propri matrimoni artistici. Nel nostro campo, quello dei deejays, il saper collaborare è una cosa fondamentale. A me riesce abbastanza facile, non avendo un ego preminente né troppo remissivo». Quali sono i suoi artisti di riferimento? Quelli con cui è cresciuto? «Sono nato come batterista rock e sono cresciuto con le magliette degli Iron Maiden e andando a pogare ai concerti dei Metallica. Poi ovviamente, grazie anche alla musica elettronica, ho ampliato i miei confini. Ma sono rimaste in me delle sonorità scure, le dissonanze mi interessano sempre di più delle assonanze». Le cinque canzoni irrinunciabili. «Fatta eccezione per la musica classica e per la trance, sicuramente ‘Nothing else matters’ dei Metallica, ‘Purple Rain’ di Prince, ‘Chocolate Jesus’ di Tom Waits, ‘Smells like teen spirit’ dei Nirvana, alcuni brani dell’album ‘London Acid City” di Chris Liberator». Sul palco si sente più artista o veicolo di emozioni? «Prima avevo un rapporto con il pubblico schermato, un rapporto che terminava alla fine del palco. Ora, quando mi esibisco come deejay, funziono più come un sacerdote in grado di operare uno scambio con le persone presenti. Avverto una tensione mistica davvero notevole». Di cosa si sta occupando in questo momento? «Stiamo lanciando una nuova etichetta, che si chiama SFS Music, alla quale stanno lavorando molti importanti deejays. Questo è il progetto su cui saremo impegnati nei prossimi anni». È difficile coniugare arte e vita? «È difficile coniugare vita e vita, direi… L’arte è qualcosa che faccio perché sento delle cose forti. Sono quelle che voglio seguire. È difficile guadagnare soldi con l’arte, questo sì, è difficile stare seduti 36 ore davanti a uno schermo e tirare fuori una traccia che, forse, dopo alcuni mesi, genererà la data di un’esibizione in una qualche località…». Come immagina il suo futuro? «Dietro la consolle, sicuramente». Chi è: Stefano “66K” De Angelis è nato a Teramo nel 1979. Dj e batterista fin dall’adolescenza, De Angelis ha iniziato la sua carriera come membro della band funky “Komplesso di Edipo”. Si è laureato in Comunicazione & Media a Londra, dove ha lavorato per MTV Networks Europe e ha iniziato ad esibirsi nei rave party della scena underground con il nome di 66K. Nel 2004 fonda insieme ad Enrico Melozzi la band “progetto LISMA”, realizzando colonne sonore per il cinema (Warner Chappell, 57 ° Festival di Berlino, 4 ° Festival di Roma) televisione (RAI), spettacoli teatrali (Globe Theatre, Auditorium Parco della Musica), siti web (Dolce & Gabbana) e come autore e regista ha scritto e realizzato cinque opere (Lisma vive, Appartamenti, Io sono nero, La città, Rosso 66) con la sua etichetta CiniK Records. La sua musica è fortemente teatrale e concettuale. storieabruzzesi.it, blog d'informazione Intervista pubblicata su “La Città” del 4 luglio 2013 |
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