di NICOLA CATENARO Storia di un batterista che diventò deejay del mondo storieabruzzesi.it, blog d'informazione Abruzzese doc, ma non sembra affatto. L’idea che ti fai quando lo incontri è che sia un indiano metropolitano allevato per sbaglio a Teramo. Un po’ hippy, un po’ filosofo. Ma sempre incredibilmente pieno di impegni, tra Ibiza (la sua nuova residenza artistica) alle coste del Sudamerica o del Giappone. In realtà Stefano De Angelis, cittadino del mondo, è semplicemente un artista molto colto oltre che un raffinato deejay. Lo intervistiamo alla vigilia della sua esibizione con Elisa Di Eusanio per lo spettacolo che l’attrice ha ideato e organizzato, all’interno del teatro romano di Interamnia, in memoria della madre, l’indimenticata Mariella Converti. Una nuova occasione, per De Angelis, di pizzicare in profondità le corde sensibili degli spettatori e far vibrare nell’aria musica potente e suggestiva. Stefano De Angelis (foto di Antonio Di Sabatino) Stefano De Angelis, perché ha lasciato Roma e ha scelto Ibiza per esprimersi? «Partirei dal mio rapporto con Roma, una realtà che mi è molto cara. Una delle città più belle del mondo e sicuramente, dal punto di vista artistico, una culla che ti permette di trattare certi temi quando sei sincronizzato con il Paese in cui vivi». Quanto tempo ha vissuto a Roma? «Sette anni. A Roma, dove sono approdato dopo essere stato all’estero, a Londra, per cinque anni, avevo un’etichetta (la CiniK Records, ndr) insieme ad Enrico Melozzi ed ero molto collegato con i problemi dell’Italia, del suo quotidiano. Facevo molte cose per il teatro Valle, mi occupavo in particolare della parte sociale, e andavo a dormire chiedendomi se avessi o meno utilizzato la mia giornata per far riflettere oltre che per far divertire. Una scena, quella in cui vivevo a Roma, che potremmo definire, tra virgolette, underground. Dall’altro lato, vivevo comunque il limite di portare avanti un progetto musicale sostanzialmente mainstream». E poi? «E poi è accaduto che la scena di Ibiza ha cominciato a spingere molto di più e ad offrirmi possibilità infinite dal punto di vista artistico. Già frequentavo l’isola da un po’ ma non avevo mai ragionato sull’opportunità concreta di fare musica così minimale com’è la musica elettronica». Come sta andando l’esperienza nelle isole Baleari? «Molto bene. Ibiza è come una matrice, una porta che ti connette a un circuito e ti trascina via. La sensazione non è quella di trovarsi nel sud della Spagna, ma di trovarsi in un posto in cui transitano tante persone ed etnie e situazioni che comunque rimangono collegate tra di loro». Ha iniziato facendo cosa ad Ibiza? «Ho iniziato nello studio degli Etnica, una band di musica trance (composta da artisti italiani, ndr) molto famosa negli anni Novanta e molto nota soprattutto in Israele e in Russia. Qui, quando si esibiscono, lo fanno negli stadi. Da noi sono meno conosciuti. Per anni hanno organizzato festival musicali all’aperto nel Sudafrica, in Brasile e in posti tropicali. Con loro, in particolare con Max Lanfranconi, un personaggio molto carismatico, una sorta di Claudio Cecchetto della musica elettronica, ho avviato una collaborazione importante nell’ambito della musica techno. Un progetto sperimentale confluito nei Technica che, nelle esibizioni dal vivo, siamo sostanzialmente io e Max». Qual è il vostro obiettivo? «Creare una scena nuova, portare musica house e techno in posti abituati alla musica trance: Israele, Sudafrica, Brasile, Marocco, Giappone». La gente apprezza di più la sua musica a Ibiza? «Non parlerei di musica fatta al di fuori dell’Italia. Parlerei invece del fatto che esiste gente che va all’estero per ballare e partecipare a feste, ritrovi che io chiamo in modo indefinito international party people e che è difficile collocare in luoghi precisi. La mia musica funziona molto in questi spazi grandi e in questi ampi contesti, così almeno mi dicono. Certo, se penso all’Italia ricordo di essere stato un personaggio molto enzimatico, un personaggio che tendeva a corrodere l’ambiente in cui si trovava molto presto. Il che mi fa pensare che forse in Italia non ero capito». Come è diventato musicista o, se preferisce, artista? «Dopo anni di tentativi di autodefinizione, ho trovato finalmente questa parola che mi contiene. Direi che ho dovuto fare l’artista perché ho provato a fare altre cose e non è che mi interessassero molto. L’altra, quella artistica, è invece sempre andata come un treno. Ho iniziato a suonare quando ero piccolo e poi con la mia prima band, Il Komplesso di Edipo, costituita da Enrico Melozzi, Matteo De Virgiliis e Francesco Franchi oltre che dal sottoscritto. Abbiamo fatto grandi cose qui in zona». Deve un grazie a qualcuno per la sua formazione? «Sicuramente alla mia famiglia per la stabilità e la fiducia che mi hanno offerto in maniera incondizionata. E poi agli amici, a partire da Enrico Melozzi, con i quali ho avviato collaborazioni che sono diventate veri e propri matrimoni artistici. Nel nostro campo, quello dei deejays, il saper collaborare è una cosa fondamentale. A me riesce abbastanza facile, non avendo un ego preminente né troppo remissivo». Quali sono i suoi artisti di riferimento? Quelli con cui è cresciuto? «Sono nato come batterista rock e sono cresciuto con le magliette degli Iron Maiden e andando a pogare ai concerti dei Metallica. Poi ovviamente, grazie anche alla musica elettronica, ho ampliato i miei confini. Ma sono rimaste in me delle sonorità scure, le dissonanze mi interessano sempre di più delle assonanze». Le cinque canzoni irrinunciabili. «Fatta eccezione per la musica classica e per la trance, sicuramente ‘Nothing else matters’ dei Metallica, ‘Purple Rain’ di Prince, ‘Chocolate Jesus’ di Tom Waits, ‘Smells like teen spirit’ dei Nirvana, alcuni brani dell’album ‘London Acid City” di Chris Liberator». Sul palco si sente più artista o veicolo di emozioni? «Prima avevo un rapporto con il pubblico schermato, un rapporto che terminava alla fine del palco. Ora, quando mi esibisco come deejay, funziono più come un sacerdote in grado di operare uno scambio con le persone presenti. Avverto una tensione mistica davvero notevole». Di cosa si sta occupando in questo momento? «Stiamo lanciando una nuova etichetta, che si chiama SFS Music, alla quale stanno lavorando molti importanti deejays. Questo è il progetto su cui saremo impegnati nei prossimi anni». È difficile coniugare arte e vita? «È difficile coniugare vita e vita, direi… L’arte è qualcosa che faccio perché sento delle cose forti. Sono quelle che voglio seguire. È difficile guadagnare soldi con l’arte, questo sì, è difficile stare seduti 36 ore davanti a uno schermo e tirare fuori una traccia che, forse, dopo alcuni mesi, genererà la data di un’esibizione in una qualche località…». Come immagina il suo futuro? «Dietro la consolle, sicuramente». Chi è: Stefano “66K” De Angelis è nato a Teramo nel 1979. Dj e batterista fin dall’adolescenza, De Angelis ha iniziato la sua carriera come membro della band funky “Komplesso di Edipo”. Si è laureato in Comunicazione & Media a Londra, dove ha lavorato per MTV Networks Europe e ha iniziato ad esibirsi nei rave party della scena underground con il nome di 66K. Nel 2004 fonda insieme ad Enrico Melozzi la band “progetto LISMA”, realizzando colonne sonore per il cinema (Warner Chappell, 57 ° Festival di Berlino, 4 ° Festival di Roma) televisione (RAI), spettacoli teatrali (Globe Theatre, Auditorium Parco della Musica), siti web (Dolce & Gabbana) e come autore e regista ha scritto e realizzato cinque opere (Lisma vive, Appartamenti, Io sono nero, La città, Rosso 66) con la sua etichetta CiniK Records. La sua musica è fortemente teatrale e concettuale. storieabruzzesi.it, blog d'informazione Intervista pubblicata su “La Città” del 4 luglio 2013
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