di: storieabruzzesi.it blog d'informazione Cronista di giorno, musicista (rock) di notte Musicista rock, esperto di basket, giornalista, interprete, traduttore. La personalità di Paolo Marini è alquanto eclettica. Chi scrive lo ha conosciuto da musicista, condividendo con lui uno dei suoi primi progetti (i “Blank”, riemersi di recente sulla piattaforma Teramorock.com) a metà degli anni Novanta. Ora questo collega dai mille interessi, che fatica a trovare del tempo libero nonostante nutra la sola ambizione di coltivare insieme tutte le sue passioni, sta per tagliare il traguardo dei venti anni di carriera musicale. Una passione coltivata silenziosamente, ma che gli è valsa alcuni significativi riconoscimenti, a livello nazionale, da riviste musicali specializzate. Con lui parliamo di tutto, partendo naturalmente dalla musica. Qual è stata la scintilla da cui è partito tutto e chi (band, persona o altro) ringrazi per questo? «Posto che carriera mi sembra un termine impegnativo nel mio caso, posso dire che la scintilla è stata innescata dalla voglia di condividere urgenze e piaceri con amici, e da una naturale esigenza espressiva». Come definiresti la tua musica? «Un modo diretto per entrare in contatto con altre sensibilità». Si tratta comunque di un tentativo di evadere dalla realtà oppure di interpretarla e quindi, in qualche maniera, di esorcizzarla? «Più che di evasione parlerei di sopravvivenza sul campo. Pur avendo viaggiato e ricevuto la spinta ad inserirmi stabilmente in contesti culturali differenti, vicende personali mi hanno portato a scegliere di rimanere a Teramo. La musica resta una componente fondamentale della mia vita, ma ho i piedi ben piantati a terra». Delawater o Amelie Tritesse? Quale dei due progetti musicali riflette meglio la tua personalità? «Meglio o peggio, in entrambi i contesti vengono fuori amicizia, ricerca sonora e curiosità. Questi sono sempre stati elementi basilari nel mio percorso musicale. Con Amelie Tritesse si sperimenta più con le parole, grazie alle storie scritte da Manuel Graziani (gli altri membri della band sono Stefano e Giustino Di Gregorio, e Matteo Borgognoni), mentre con i Delawater (ne fanno parte anche Pierluigi Filipponi, Andrea Marramà, Stefano Di Gregorio e Serafino Bucciarelli) si viaggia su coordinate sonore più melodiche e psichedeliche, come hanno sottolineato molti recensori dell’ultimo disco “Open book at page eleven”». Le cinque soddisfazioni più belle ricevute in campo musicale. «In fase random, direi: intervistare a Bologna il chitarrista degli Slint, David Pajo; chiacchierare con Mark Lanegan con indosso una maglietta dei Pixies; sentire più volte su RadioRai3 le canzoni di Iver and the driver, progetto “folk-tronico” che ho creato con Giustino Di Gregorio; suonare sullo stesso palco un po’ prima di Thurston Moore dei Sonic Youth; trovare gli stimoli giusti per evolvermi musicalmente ed evitare di suonare sempre la stessa canzone». Non male anche essere riusciti ad ottenere riconoscimenti in campo nazionale da parte ad esempio delle riviste di settore. Resta il problema di come finanziare questa passione… «Ci si finanzia suonando e valutando attentamente se è più urgente investire in un nuovo effetto per chitarra, un nuovo portatile o un nuovo disco. Poi, il tempo aiuta a svuotarsi di ambizioni fuori contesto. In Italia campare con una proposta musicale non convenzionale diventa molto improbabile. Quindi, per rispondere alla tua domanda: razionalizzo!». Ogni città – e parliamo ovviamente di Italia – ha il suo circuito di band giovanili locali che, però, restano quasi sempre “undergound” rispetto alla manifestazioni culturali dominanti. Eppure il fenomeno richiama l’attenzione di centinaia, a volte di migliaia di ragazzi. Ritieni che per la musica rock e le sue derivazioni ci sia un pregiudizio o un atteggiamento volutamente discriminatorio da parte degli amministratori locali (tipo tenere a bada i violenti)? «Sarò tra virgolette sorpassato ma preferisco che l’underground resti tale, un mondo da scoprire, da andarsi a cercare. Il valore di un evento si misura in pubblico se lavori come politico o sondaggista, io non ne faccio invece un discorso numerico ma di contesto. Possono starci dieci o mille persone davanti a una band che suona dal vivo, ma se stai vivendo un’esperienza precostituita o genuina lo definisce il dove ti trovi in quel preciso momento. Sono cresciuto con queste convinzioni e ancora le considero credibili». Musicista ma anche giornalista: dalle cronache musicali e del basket nazionale alla direzione di un sito internet locale: rifaresti tutto? «Diciamo che mi attira più cercare di fare meglio in futuro che rifare un po’ meglio il passato (risate)». Teramo nell’Olimpo del basket nazionale dal 2003 al 2012. Quasi dieci anni di permanenza in serie A hanno lasciato solo debiti a Teramo o qualcosa di più? «Questo periodo mi ha dato e tolto un lavoro, mi ha lasciato una condivisa amarezza e la sensazione che a risultati troppo grandi da sostenere spesso corrispondono scelte troppo grandi da sostenere». Qual è stato, secondo te (da osservatore esterno), l’errore più grande che ha portato al fallimento della società? «Farsi trascinare dalle ambizioni sempre e comunque, a fronte di un sistema che sembra indurre a ritenere questo approccio percorribile». Dirigi un sito di informazione locale. Qual è secondo te il limite del giornalismo online locale? E quale il suo futuro? «Il limite del giornalismo online locale è che nella maggior parte dei casi non crea reddito sufficiente, e inoltre non vedo grandi investimenti nel settore. Ci sono pochissimi che stanno bene e tantissimi che si sbattono per sopravvivere. La situazione va peggiorando, e oltre a deprimere costantemente le vite di chi vorrebbe semplicemente lavorare in maniera dignitosa, la qualità del servizio tende a scendere. Futuro? Al momento, grigio». Cosa rimprovereresti alla tua città se dovessi giudicarla da artista? «Esprimo la mia sensibilità tramite la musica ma sentirmi chiamare artista mi suona un po’ eccessivo. Io non provo a campare della mia arte, non vivo dopotutto in un contesto che mi permetterebbe di farlo. I rimproveri sono conseguenza delle aspettative e io ne ripongo poche ad esempio nelle istituzioni. Lo dico a ragion veduta perché per anni sono stato attivo nell’organizzare iniziative. In zona esistono e resistono comunque valide micro realtà, e anche se il lavoro ha ridotto il tempo a disposizione per le passioni, quando posso cerco contesti interessanti. Per fortuna ci sono teramani che mi trasmettono ancora entusiasmi condivisibili». CHI È Nato il 6 agosto 1972 a Teramo, si è laureato in Lingue e Letterature Straniere all’Università di L’Aquila nel 2000 e ha passato del tempo in Inghilterra a perfezionare “sul campo” l’inglese. Tornato in città, ha intrapreso l’attività di giornalista occupandosi di sport, cronaca locale e altro per il quotidiano “Il Messaggero” e maturando così i requisiti per l’iscrizione all’Ordine dei giornalisti. Ha affiancato diverse attività lavorative al giornalismo, sia a livello locale (“Teramo Triathlon Team”, “Cineforum Teramo”, Università di Teramo, Provincia di Teramo) sia a livello nazionale (la rivista di basket “Dream Team”, per la quale ha scritto report da New York City). Da oltre tre anni è direttore responsabile del primo quotidiano on-line nato in Abruzzo, TeramoNews.com, e continua ad ampliare il proprio coinvolgimento nel mondo della scrittura per il web con altre collaborazioni. Ha parlato per anni di musica sul magazine “Mood” e condotto programmi per RadioFrequenza. La casa editrice “Demian” gli ha affidato anni fa il compito di coordinare la raccolta di racconti scritti da autrici teramane “TestiMonia”. Da molto tempo scrive canzoni e realizza dischi con vari progetti musicali (Blank, Matt Murdock, Orange Indie Crowd, Famous Players, Iver and the driver, Amelie Tritesse, Delawater, The dead man singing). Ha una passione smisurata per il basket NCAA (il massimo livello del basket collegiale negli Stati Uniti d’America) e gioca nel campionato CSI di pallacanestro con la “Teramo a Spicchi”. Nicola Catenaro Intervista pubblicata su “La Città quotidiano” del 23 gennaio 2014 Fai clic qui per effettuare modifiche.
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"18 anni fà" - Un demo e il video di un concerto del 1995 della band teramana "BLANK". Un giovane Tito Macozzi al mixer per la registrazione dei brani. BLANK: Massimo Cancellieri - drums Nicola Catenaro - voice Pierluigi Filipponi - guitars Paolo Marini - bass, guitars Blank. 1995, live all'Arabesque, L'Aquila. Foto del concerto del chitarrista blues Luca Giordano con Marco Pandolfi all'armonica. L'atipica ambientazione è una sala piena di divani del mercatino dell'usato di Teramo. Assolutamente ben insonorizzato! Ospiti sul palco, per alcuni pezzi, il chitarrista Di Berardo e le voci Nicola Catenaro e della cantante Perla. 1 dicembre 2013 di Nicola Catenaro «La musica, la mia favolosa ossessione» Luca D’Alberto è un artista sorprendente. La sorpresa sta nel trovarlo sempre al fianco di grandi personaggi in vari campi, dal teatro alla danza o alla musica rock, senza vederne modificati negli anni né il carattere (fondamentalmente timido) né l’approccio alle cose che gli accadono intorno (allegro e spensierato, come sempre). L’espressione e i modi da eterno fanciullo, però, tradiscono le doti e il talento di un musicista colto, sensibile e raffinato. Ecco la sua (sorprendente) intervista-ritratto. Luca D’Alberto, quando e come ha iniziato a suonare e perché? «Ho iniziato da piccolissimo perché nella mia famiglia ci sono due meravigliose musiciste: mia madre e mia sorella. Ascoltandole suonare, chiesi di iniziare lo studio di uno strumento e scelsi la viola e il violino. Gli strumenti ad arco mi hanno sempre appassionato. Mi sono avvicinato anche alla Violectra 6 corde». A chi deve un grazie per la sua formazione? «Sicuramente a mia madre e mio padre». Quali sono i suoi principali riferimenti musicali? «La curiosità è il mio principale riferimento». Il musicista con cui ha lavorato che ammira di più? «Uno tra i tanti è Mike Garson, compositore e pianista di David Bowie, Smashing Pumpkins, NIN. Nonostante le sue esperienze, ha una grande capacità di ascolto e una grande umanità». Con quale musicista del passato vorrebbe aver lavorato? «Chopin». Il suo sogno già realizzato? «Essere entrato nella grande famiglia del Tanztheater “Pina Bausch”». Il suo sogno ancora da realizzare? «Non si può dire, magari porta male… ». La musica: la sua pace o la sua ossessione? «Mai domanda fu più giusta. Così come ti dà tanto: emozioni indescrivibili ed esperienze uniche, la musica toglie molto. Per inseguirla devi metterla al primo posto e fare molte rinunce». Musica classica o musica leggera? Quale sceglie? «Ogni musica fatta con senso del gusto, senza discriminazioni di sorta. La mia grande capacità è quella di ascoltare senza pormi limiti». Musica o poesia? La prima comprende l’altra o la seconda comprende la prima? «L’una dovrebbe perdersi nell’altra e molto dipende dalla capacità del poeta e del musicista di amalgamare le due arti. Sto collaborando con Rick Holland, poeta scozzese e collaboratore di Brian Eno, con il quale ho trovato corrispondenza di respiro. Inoltre Rick è davvero un esempio per quanto riguarda la musicalità messa in parole. Voglio dire che una sua poesia è già musica». Ci sono persone musicali e altre meno musicali? «Come per qualsiasi arte ci sono persone di talento e altre meno al di là del percorso di studio. Molti artisti autodidatti hanno fatto la storia della musica come e a volte più di altri che hanno seguito studi accademici. Questo perché l’istinto e il senso del gusto innato sono più forti di qualsiasi percorso». Che rapporto vede tra arte e politica? «Credo che ogni artista faccia politica nel senso di un impegno nei confronti della Bellezza. Anche chi non sceglie la via palesemente politica opera nel sociale, provando a comunicare sensibilità per cose apparentemente futili o lontane dalla vita pratica. In fondo l’attenzione perla Bellezzadovrebbe essere il punto di partenza e di arrivo di ogni essere umano. Il discorso ovviamente sarebbe molto più lungo e ricco di sfumature».
Che rapporto ha con Teramo e perché dice che è legato alla sua terra da connessioni magiche? «Con Teramo ho un bel rapporto, è anche nella mia città che ho composto la maggior parte delle mie musiche che poi hanno risuonato nei teatri di tutta Italia e non solo. Penso alle musiche composte tra Teramo, Roma ela Germania: il “Così è se vi pare” e il “Re Lear” di e con Michele Placido, lo spettacolo teatrale dedicato a Puccini di Albertazzi, le mie composizioni per il Tanztheater “Pina Bausch” e tanto altro. La magia della mia terra nasce dal forte rapporto con la natura: la montagna, il mare così a poca distanza. A volte, percorrendola A24, mi chiedo quanto quello che da bambino consideravo scontato alla vista in realtà è speciale ed ha contribuito alla mia crescita artistica. Forse è proprio da lì che nasce la mia curiosità, in questa terra dove gli elementi naturali si fondono e si integrano». Vive a Roma per scelta o per necessità? «In realtà vivo a Roma perché condivido molte amicizie e contatti professionali, ma spesso sono fuori Italia per altri impegni artistici. Wuppertal, la città della Germania del Nord scelta da Pina Bausch per le sue creazioni, mi fa pensare molto a Teramo. A Pina hanno proposto città più blasonate come Berlino o New York ma è rimasta in questo piccolo centro fino alla fine, perché lì aveva maggiore ispirazione e tranquillità. A volte le piccole città, che apparentemente limitano o escludono, proteggono». Come cambierebbe la sua città? «Vorrei ci fosse maggiore carisma collaborativo e supporto, spesso ci si sente teramani e o italiani quando viviamo all’estero e sarebbe auspicabile alimentare consapevolezza e nuove sinergie in loco. È un discorso valido non solo per Teramo ma per tutta l’Italia». CHI È Compositore, Violectra 6 corde violista, violinista diplomato con il massimo dei voti, la lode e la menzione ministeriale, è Violectra Official Player al fianco di importanti artisti internazionali come Jean Luc Ponty e Nigel Kennedy. Nel mondo della musica classica, quale vincitore di selezione internazionale, ha collaborato con Bruno Giuranna, Simonide Braconi, Antonio Anselmi, Reiner Schmidt e con l’orchestra Cherubini diretta dal maestro Riccardo Muti. Collabora con Zentropa (casa di produzione di Lars Von Trier), Michele Placido, Giorgio Albertazzi, Rick Holland (poeta di fama internazionale e stretto collaboratore di Brian Eno), Mike Garson (pianista di David Bowie), Astrid Young (Neil Young), Deep Purple, Xabier Iriondo (Afterhours), Ditta Miranda e Damiano Ottavio Bigi (Tanztheater “Pina Bausch”), è ospite degli eventi organizzati dal Tanztheater “Pina Bausch” all’interno del Festival “Pina40″. Ora sta lavorando al suo primo progetto solista, “ESTASI”, con numerosi ospiti internazionali. Nicola Catenaro - storie abruzzesi Fai clic qui per effettuare modifiche. Non sono molti i chitarristi italiani che possono dire di aver suonato con leggende del blues come Bob Stroger, Willie “Big Eyes” Smith (il batterista di Muddy Waters), Jimmy Burns o J.W. Williams. Lui, Luca Giordano, abruzzese doc, a soli 33 anni può dirlo forte anche se la sua fama ha percorso più rapidamente il circuito dei locali e dei festival statunitensi che la sua provincia di nascita, ciò che lui stesso chiama il “nido”: Teramo. Chi l’avrebbe mai detto che questo ragazzo mingherlino e con la barba un po’ incolta, sempre sorridente ma fondamentalmente timido, sarebbe diventato un punto di riferimento, almeno negli States, tra i fedeli della musica nera per antonomasia, la cosiddetta “musica del diavolo”, il blues. Pazienza, in attesa che la sua città se ne accorga e gli conceda gli onori che merita (a proposito, il suo prossimo concerto a Teramo è fissato per il 1° dicembre, insieme al noto armonicista Marco Pandolfi), vi forniamo un suo gradevole ritratto. Luca Giordano, quando ha iniziato a suonare la chitarra? «Ho iniziato a strimpellare la chitarra da piccolo, intorno ai tredici anni, con una vecchia ma ottima chitarra classica di mia madre. Poi, pian piano, ho cominciato ad interessarmi di solistica». l suo primo contatto con il blues? «È stato in un piccolo locale del Teramano dove suonava una band. Si divertivano ed avevano un approccio alla musica molto libero e ludico». Quando è diventato un musicista professionista? «Dopo anni insieme alla mia prima blues band, i Jumpin’ Eye Blues Quintet, con cui abbiamo anche vinto diversi premi e partecipato a diverse rassegne, decido di partire per Chicago. Da quel giorno, posso dire che è cambiato tutto: ho scoperto nuovi punti di vista e soprattutto ho avuto la spinta decisiva per credere nella professione del musicista. In quei tre anni, alternati tra Stati Uniti ed Europa, ho cominciato le mie più importanti collaborazioni e da lì è ufficialmente iniziata la mia carriera». Con quali artisti blues ha suonato finora? Quali le collaborazioni di prestigio? «Ho avuto negli anni la fortuna di suonare al fianco di grandi artisti americani del circuito blues statunitense, e per lo più con la stragrande maggioranza degli artisti di Chicago. Ho iniziato con Les Getrex, chitarrista di Fats Domino, quindi J.W. Williams, della band di Buddy Guy & Junior Wells, ed ancora Sharon Lewis Eric Davis, James Wheeler, Chris Cain, Peaches Staten, Sax Gordon, Nellie Travis, Shirley King, figlia del re B.B. King, e, tra quelle che più mi stanno a cuore, senza dubbio Bob Stroger, 83 anni, bassista della Jimmy Rogers Band, e Willie Big Eyes Smith, leggendario batterista di Muddy Waters». Cos’è per lei il blues? «Il blues è un particolare modo di approcciare la musica. È un rapporto basato sul feeling, sull’istinto, sull’espressività e sulla comunicatività prima ancora che sulla tecnica. Del resto nasce e si sviluppa come musica di protesta e ribellione, come necessità di tirare fuori i propri blues, le proprie pene. Forse autenticità e genuinità sono due caratteristiche che esprimono al meglio il senso di questo genere. Per citare Pinetop Perkins: “If you don’t feel the blues, you have a hole in your soul” (letteralmente: se non riesci a sentire il blues, hai un buco nella tua anima, ndr)». Quanto è stato importante il blues per la musica rock? «Il blues è un po’ la mamma di tutte le musiche. Artisti come Eric Clapton o John Mayall hanno basato la loro carriera riproponendo classici del genere o reinterpretando artisti come John Lee Hooker, Robert Johnson o Howlin Wolf. Addirittura i Rolling Stones hanno ripreso il nome della band proprio da un brano di Muddy Waters». Al blues sono legate parecchie leggende, tra le quali forse la più nota è quella del patto con il diavolo in cambio del successo come si favoleggia sia avvenuto per Robert Johnson, il grande bluesman degli anni Trenta scomparso in circostanze misteriose a soli 27 anni. Cosa ne pensa? «Non è poi cambiato molto da allora. Anche oggi fior di artisti si inchinano alle logiche di mercato e del music business in cambio del successo e della carriera. Ma non dimentichiamoci che a quei tempi il gospel era considerato la musica del Signore e il blues quella del diavolo. In buona sostanza, tutta la musica che cantava della ribellione alle istanze sociali del tempo era considerata sacrilega». Perché il blues riscuote ancora oggi un così grande successo? «Forse perché è una grande valvola di sfogo per chi lo suona e per chi lo ascolta? Forse perché è un genere musicale facilmente fruibile da tutti, basato il più delle volte su pochi accordi ma su tanto groove? O forse perché è paragonabile più alla sana e genuina cucina casereccia, con i relativi trucchi tramandati da generazioni che non trovi sui libri di cucina e con tanto amore, piuttosto che alla raffinata cucina di uno chef a cinque stelle». Qual è il suo ricordo più bello da musicista? «Sul palco con Willie Big Eyes Smith, batterista di Muddy Waters, Bob Stroger e Willie Mayes al Virginia Beach Blues Festival 2011. Non lo dimenticherò mai». Che rapporto ha con Teramo e l’Abruzzo? «Diciamo che Teramo rappresenta un po’ il mio nido, al quale tornare dopo mesi di tour o viaggi all’estero per godermi il meritato riposo del guerriero. Sono nato qui e ho qui la mia famiglia, ed anche il mio terreno con il mio orto… L’ Abruzzo è una regione stupenda. Abbiamo il mare, la montagna, la campagna, paesaggi e borghi strepitosi, vino ottimo e cucina eccezionale. Quello che serve per una vita da re. Ciò che manca, come ormai nella stragrande maggioranza del paese Italia, è la cultura con la lettera maiuscola: musica, teatro, scultura, poesia … arte in generale e spazi per gli artisti. Ormai al giorno d’oggi si arriva addirittura a dire che con la cultura non si mangia, quindi mi sento di dire che è un problema globale più che provinciale». Cosa consiglierebbe a un giovane musicista che volesse seguire le sue orme? «Consiglierei il viaggio. Il viaggio porta freschezza, rinnovamento, confronto, ma soprattutto punti di vista diversi sul mondo. E dal viaggio si torna più maturi e con tanta esperienza sulle spalle. L’importante è non perdersi». CHI È:
Luca Giordano inizia la sua avventura all’età di 20 anni, sviluppando anno dopo anno il proprio particolare stile grazie ad una profonda passione per il blues. Trasferitosi a Chicago, inizia un lungo periodo d’intensa gavetta. Intraprende diverse collaborazioni con artisti del panorama blues locale, come Les Getrex Band, Sharon Lewis and Texas Fire, e con il leggendario J.W. Williams, che ha affiancato per più di un mese in sostituzione del suo chitarrista Shun Kikuta il quale era in tour con Koko Taylor. Nel 2008 incontra Eric Guitar Davis ed avvia con lui un’ottima collaborazione e una grande amicizia. Nel 2011 si esibiscono insieme al “Chicago Blues Festival” presso il Crossroad Stage ed il Windy City BluesStage. Con la sua band, Luca suona nei migliori club e festival statunitensi ed europei ed anche come sideman per leggende del Chicago Blues, come Bob Stroger, Willie “Big Eyes” Smith (leggendario batterista di Muddy Waters), Jimmy Burns e J.W. Williams. Oltre alle diverse collaborazioni che lo portano a una forte versatilità stilistica, rende omaggio insieme al suo collaboratore e grande amico armonicista, Quique Gomez, al blues tradizionale della vecchia scuola di Chicago. Partendo dal blues tradizionale, con colori sgargianti e toni a scanalature più sperimentali, Luca Giordano costruisce il suo spettacolo che riecheggia storie ed esperienze personali, collaborazioni ed esperienze, facendosi anche intenso omaggio ad alcuni dei suoi ispiratori come Carlos Johnson, Chris Cain, J.W. Williams e Lurrie Bell, solo per citarne alcuni. ------------------------------------------------------------------------------------------------ Nicola Catenaro ![]() di NICOLA CATENARO Storia di un batterista che diventò deejay del mondo storieabruzzesi.it, blog d'informazione Abruzzese doc, ma non sembra affatto. L’idea che ti fai quando lo incontri è che sia un indiano metropolitano allevato per sbaglio a Teramo. Un po’ hippy, un po’ filosofo. Ma sempre incredibilmente pieno di impegni, tra Ibiza (la sua nuova residenza artistica) alle coste del Sudamerica o del Giappone. In realtà Stefano De Angelis, cittadino del mondo, è semplicemente un artista molto colto oltre che un raffinato deejay. Lo intervistiamo alla vigilia della sua esibizione con Elisa Di Eusanio per lo spettacolo che l’attrice ha ideato e organizzato, all’interno del teatro romano di Interamnia, in memoria della madre, l’indimenticata Mariella Converti. Una nuova occasione, per De Angelis, di pizzicare in profondità le corde sensibili degli spettatori e far vibrare nell’aria musica potente e suggestiva. ![]() Stefano De Angelis, perché ha lasciato Roma e ha scelto Ibiza per esprimersi? «Partirei dal mio rapporto con Roma, una realtà che mi è molto cara. Una delle città più belle del mondo e sicuramente, dal punto di vista artistico, una culla che ti permette di trattare certi temi quando sei sincronizzato con il Paese in cui vivi». Quanto tempo ha vissuto a Roma? «Sette anni. A Roma, dove sono approdato dopo essere stato all’estero, a Londra, per cinque anni, avevo un’etichetta (la CiniK Records, ndr) insieme ad Enrico Melozzi ed ero molto collegato con i problemi dell’Italia, del suo quotidiano. Facevo molte cose per il teatro Valle, mi occupavo in particolare della parte sociale, e andavo a dormire chiedendomi se avessi o meno utilizzato la mia giornata per far riflettere oltre che per far divertire. Una scena, quella in cui vivevo a Roma, che potremmo definire, tra virgolette, underground. Dall’altro lato, vivevo comunque il limite di portare avanti un progetto musicale sostanzialmente mainstream». E poi? «E poi è accaduto che la scena di Ibiza ha cominciato a spingere molto di più e ad offrirmi possibilità infinite dal punto di vista artistico. Già frequentavo l’isola da un po’ ma non avevo mai ragionato sull’opportunità concreta di fare musica così minimale com’è la musica elettronica». Come sta andando l’esperienza nelle isole Baleari? «Molto bene. Ibiza è come una matrice, una porta che ti connette a un circuito e ti trascina via. La sensazione non è quella di trovarsi nel sud della Spagna, ma di trovarsi in un posto in cui transitano tante persone ed etnie e situazioni che comunque rimangono collegate tra di loro». Ha iniziato facendo cosa ad Ibiza? «Ho iniziato nello studio degli Etnica, una band di musica trance (composta da artisti italiani, ndr) molto famosa negli anni Novanta e molto nota soprattutto in Israele e in Russia. Qui, quando si esibiscono, lo fanno negli stadi. Da noi sono meno conosciuti. Per anni hanno organizzato festival musicali all’aperto nel Sudafrica, in Brasile e in posti tropicali. Con loro, in particolare con Max Lanfranconi, un personaggio molto carismatico, una sorta di Claudio Cecchetto della musica elettronica, ho avviato una collaborazione importante nell’ambito della musica techno. Un progetto sperimentale confluito nei Technica che, nelle esibizioni dal vivo, siamo sostanzialmente io e Max». Qual è il vostro obiettivo? «Creare una scena nuova, portare musica house e techno in posti abituati alla musica trance: Israele, Sudafrica, Brasile, Marocco, Giappone». La gente apprezza di più la sua musica a Ibiza? «Non parlerei di musica fatta al di fuori dell’Italia. Parlerei invece del fatto che esiste gente che va all’estero per ballare e partecipare a feste, ritrovi che io chiamo in modo indefinito international party people e che è difficile collocare in luoghi precisi. La mia musica funziona molto in questi spazi grandi e in questi ampi contesti, così almeno mi dicono. Certo, se penso all’Italia ricordo di essere stato un personaggio molto enzimatico, un personaggio che tendeva a corrodere l’ambiente in cui si trovava molto presto. Il che mi fa pensare che forse in Italia non ero capito». Come è diventato musicista o, se preferisce, artista? «Dopo anni di tentativi di autodefinizione, ho trovato finalmente questa parola che mi contiene. Direi che ho dovuto fare l’artista perché ho provato a fare altre cose e non è che mi interessassero molto. L’altra, quella artistica, è invece sempre andata come un treno. Ho iniziato a suonare quando ero piccolo e poi con la mia prima band, Il Komplesso di Edipo, costituita da Enrico Melozzi, Matteo De Virgiliis e Francesco Franchi oltre che dal sottoscritto. Abbiamo fatto grandi cose qui in zona». Deve un grazie a qualcuno per la sua formazione? «Sicuramente alla mia famiglia per la stabilità e la fiducia che mi hanno offerto in maniera incondizionata. E poi agli amici, a partire da Enrico Melozzi, con i quali ho avviato collaborazioni che sono diventate veri e propri matrimoni artistici. Nel nostro campo, quello dei deejays, il saper collaborare è una cosa fondamentale. A me riesce abbastanza facile, non avendo un ego preminente né troppo remissivo». Quali sono i suoi artisti di riferimento? Quelli con cui è cresciuto? «Sono nato come batterista rock e sono cresciuto con le magliette degli Iron Maiden e andando a pogare ai concerti dei Metallica. Poi ovviamente, grazie anche alla musica elettronica, ho ampliato i miei confini. Ma sono rimaste in me delle sonorità scure, le dissonanze mi interessano sempre di più delle assonanze». Le cinque canzoni irrinunciabili. «Fatta eccezione per la musica classica e per la trance, sicuramente ‘Nothing else matters’ dei Metallica, ‘Purple Rain’ di Prince, ‘Chocolate Jesus’ di Tom Waits, ‘Smells like teen spirit’ dei Nirvana, alcuni brani dell’album ‘London Acid City” di Chris Liberator». Sul palco si sente più artista o veicolo di emozioni? «Prima avevo un rapporto con il pubblico schermato, un rapporto che terminava alla fine del palco. Ora, quando mi esibisco come deejay, funziono più come un sacerdote in grado di operare uno scambio con le persone presenti. Avverto una tensione mistica davvero notevole». Di cosa si sta occupando in questo momento? «Stiamo lanciando una nuova etichetta, che si chiama SFS Music, alla quale stanno lavorando molti importanti deejays. Questo è il progetto su cui saremo impegnati nei prossimi anni». È difficile coniugare arte e vita? «È difficile coniugare vita e vita, direi… L’arte è qualcosa che faccio perché sento delle cose forti. Sono quelle che voglio seguire. È difficile guadagnare soldi con l’arte, questo sì, è difficile stare seduti 36 ore davanti a uno schermo e tirare fuori una traccia che, forse, dopo alcuni mesi, genererà la data di un’esibizione in una qualche località…». Come immagina il suo futuro? «Dietro la consolle, sicuramente». ![]() Chi è: Stefano “66K” De Angelis è nato a Teramo nel 1979. Dj e batterista fin dall’adolescenza, De Angelis ha iniziato la sua carriera come membro della band funky “Komplesso di Edipo”. Si è laureato in Comunicazione & Media a Londra, dove ha lavorato per MTV Networks Europe e ha iniziato ad esibirsi nei rave party della scena underground con il nome di 66K. Nel 2004 fonda insieme ad Enrico Melozzi la band “progetto LISMA”, realizzando colonne sonore per il cinema (Warner Chappell, 57 ° Festival di Berlino, 4 ° Festival di Roma) televisione (RAI), spettacoli teatrali (Globe Theatre, Auditorium Parco della Musica), siti web (Dolce & Gabbana) e come autore e regista ha scritto e realizzato cinque opere (Lisma vive, Appartamenti, Io sono nero, La città, Rosso 66) con la sua etichetta CiniK Records. La sua musica è fortemente teatrale e concettuale. storieabruzzesi.it, blog d'informazione Intervista pubblicata su “La Città” del 4 luglio 2013 |
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